17 gennaio: un fratello, il monaco Antonio e ancora Pane
II domenica del Tempo Ordinario (B)
(Daniele 12,1-3 / salmo 15 / Ebrei 10,11.14-18 / Marco 13,24-32)
Alcuni miei scritti, a volte – come in questi giorni – hanno più il sapore di un racconto, pagine quasi biografiche, appunti pastorali di un prete di mezza età, non più giovane ma non ancora anziano. Se il Vangelo è annuncio del regno di Dio in mezzo a noi, allora anche questi miei pensieri, già divenuti parole scritte, potrebbero provenire da lì o lì vorrei che mi portassero. Se ve li condivido non è per smanceria. Ho un grande desiderio: che possiamo leggere le nostre vicende giornaliere alla luce del Vangelo. Buona lettura, buona domenica!
17 gennaio 1981. Quella notte la ricordo benissimo. Qualche mese dopo avrei compiuto otto anni. Verso l’una, mi alzai per andare nella stanza di mamma e papà. Non trovandoli, mi precipitai nella casa dei nonni materni. I due appartamenti erano comunicanti. «Dove sono la mamma e il papà?» chiesi. «Sono andati all’ospedale. Sta nascendo il tuo fratellino». Così quella notte il mio vocabolario si arricchiva di una parola nuova. Non che non ne conoscessi il significato, ma quella parola ancora doveva farsi carne per me. E fu come un altro natale. La parola «fratello» si faceva carne, nella nostra casa, accanto a me. E io stesso diventavo fratello per l’ultimo arrivato. Quel dono vivo che i miei genitori mi fecero fu proprio un dono di Dio. E così è. E così sia.
Di Antonio invece non sapevo nulla. Antonio chi? Il santo monaco del deserto, quello che viene ricordato in questo giorno in diversi paesi d’Italia, soprattutto quelli a vocazione rurale. E di Antonio cosa poteva sapere un bambino? Non frequentavo ancora la parrocchia. E poi, chissà se ne parlavano. Non essendo poi nato in campagna, nemmeno potevo averne sentito parlare. Qui in campagna, ad Antonio ci tengono. Gli anziani di sicuro. E chiedo spesso perché. A dire il vero non si sa bene. O forse non si sa dire… ci si tiene e basta. Nelle poche stalle rimaste, nei garage che spesso sono piccoli magazzini o laboratori per riparazioni domestiche si trovano le classiche immagini votive del medesimo Antonio sovrappostesi negli anni.
Tener viva una tradizione o un’usanza equivale spesso a «fare qualcosa». Un gesto, un segno, un piccolo ricordo da lasciare, come fosse una piccola pietra miliare per dire che anche per quell’Anno Domini da lì siamo passati. Ma io ho compreso che ogni passaggio di calendario, a precise scadenze, è per un approfondimento, per una crescita. Quando invece i successivi passaggi sul calendario assomigliano più ad un’immagine che si sbiadisce progressivamente, sono una crescente perdita del senso o della ragione per cui facciamo o diciamo certe cose in quella precisa occasione, a quel punto è ora di metterci mano e decidere se tenere o lasciar andare.
Di Antonio qualcosa terrei. Per ricordarci di lui qualcosa potremmo ancora fare. Non per semplice devozione o per quella fede che mai come in queste occasioni rasenta il magico. Certo, con la scusante universale di quanto sta ancora accadendo, potremmo pure dire che proprio quest’anno non ci è permesso di far niente. E quindi nulla? Sì, io so bene cosa fare. Non è anzitutto un fare con le mani. È un fare con le parole. Anche le parole fanno. Fanno tanto. Fanno bene quando sono buone. E lo sappiamo che le parole fanno questo. Ed è per questo che ascoltiamo la Parola di Dio. Fa bene.
Se dunque qualcosa è bene fare, allora vorrei farvi riscoprire Antonio e tutti quei simboli con i quali è raffigurato e che vagamente appaiono alla nostra mente in questo giorno. Antonio, il santo degli animali. Perché è raffigurato con un maiale? E il campanello? E il fuoco che porta il suo nome? E perché quei piccoli pani benedetti che si donano in questo giorno?
Diede tutto ai poveri e poi andò a vivere per circa ottant’anni nel deserto, lontano dalle città degli uomini. Non per fuggire, tant’è che andavano da lui a chiedergli consigli. Le comodità non bastano nella vita. E così riunciando a queste si va cercando altro. Anche Antonio, come ogni discepolo di Cristo, udì quella Sua domanda: «Che cosa cercate?». E da lì che inizi il cammino che lo allontanerà dal bagliore delle cose, dietro alla Luce vera.
La sua capacità di vivere il deserto fu presto fama di santità. Delle sue sapienti parole ci è giunta una raccolta di centoventi detti e venti lettere. In una di queste lettere si legge: «Chiedete con cuore sincero quel grande Spirito di fuoco che io stesso ho ricevuto, ed esso vi sarà dato». Dopo la sua morte (avvenuta nel 365) nel 561 fu scoperta la sua tomba e i resti del suo corpo vennero portati fino in Francia dove fu costruita una chiesa in suo onore precisamente a Motte Saint-Didier. In questa chiesa affluivano numerosi malati avvelenati da un fungo presente nella farina di segale, usata per fare il pane. E da qui già si può cogliere il senso dei pani di questa tradizione. Si costruì anche un ospedale e una Confraternita di religiosi, l’antico Ordine ospedaliero degli «Antoniani». Il Papa accordò loro il privilegio di allevare maiali per uso proprio e per le cure. Così dei porcellini circolavano liberamente fra cortili e strade e nessuno osava toccarsi se portavano una campanella: erano i maiali degli Antoniani. Il grasso dei maiali veniva usato per curare l’ergotismo, più noto dal medioevo come «fuoco di sant’Antonio».
Detto questo, a me piacerebbe significare nuovamente questa tradizione dei panini di sant’Antonio. Senza allontanarmi troppo da tutta la simbologia del pane da cui provengono parole bellissime come «compagnia». Cum-panis, partecipare dello stesso pane. Io ci metterò farina, acqua, lievito madre e un pizzico di sale. Un po’ del mio tempo ovviamente. Ma del tempo non vi preoccupate. Anche il pane ha una sua ritualità, come la preghiera. Ho imparato a ritmare le mie giornate al loro ritmo. Sento che è tempo di cose semplici, concrete, impastate anche di tenacia e perseveranza. È tempo di fare buono il quotidiano. E chissà se un giorno, qualche ragazzo o giovane possa dire: «Posso aiutarti?» o «m’insegni?». E mentre si tengono le mani in pasta, si potrebbe parlare di tante cose, di Vita e di Vangelo nascosto lì dentro. Quel giorno vorrei raccontarvelo.
Dio, nostro Padre,
Tu che governi il cielo e la terra,
nella tua bontà ascolta le nostre preghiere,
le preghiere del tuo popolo
e quelle di ogni figlio dell’uomo
che vive sulla terra:
dona ai nostri giorni la tua pace.
Tu che in Cristo Signore
hai posto la tua dimora tra noi,
donaci di accogliere costantemente la sua parola
per essere tempio dello Spirito santo,
a gloria del tuo nome.
Amen.
(liberamente riscritta dalla liturgia)
Dal Vangelo secondo Giovanni (1,35-42)
In quel tempo Giovanni stava con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’agnello di Dio!». E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù.
Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: «Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbì – che, tradotto, significa maestro –, dove dimori?». Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio.
Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia» – che si traduce Cristo – e lo condusse da Gesù. Fissando lo sguardo su di lui, Gesù disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa» – che significa Pietro.
Desto il cuore teniamo, fratelli,
poiché non sempre egli tuona dal monte
oppure chiama dal roveto in fiamme,
ma più bisbiglia appena e di notte.
Signore, che tutta l’umanità
sia il tuo grande corpo,
e il cuore di ognuno sia luogo
dove più ami abitare,
nasconderti e insieme rivelarti.
Più ancora che la fede di Abramo
ci è necessaria a seguirti, Signore:
Abramo almeno camminava al lume delle stelle,
e noi invece dietro a Te
vagabondo e senza fissa dimora.
E non c’è altra scelta:
che almeno ti seguiamo per amore,
e senza chiederti nulla.
(David Maria Turoldo)
Se vuoi conoscere meglio l’iniziativa «Nostro Pane Quotidiano» scarica il documento
“Facci uno come il pane che anche oggi hai dato a noi”…affinché la nostra vita sia impastata dalle Tue mani e sia buona come il pane; sapida perché sa di Te e della Tua Parola. “Tieni desta in noi la nostalgia del Tuo volto, la sete e la fame di Te” oggi ed ogni giorno, nella quotidianità di ciascuno, che Tu sempre sfami. Mendicanti di quel Pane quotidiano veniamo gioiosi a Te.
Oggi arrivando alla messa al Centro Pastorale Giovanni XXIII ho trovato una sorpresa: si celebrava la consacrazione di un Diacono. È stata una festa grande perché il nuovo Diacono è una figura della comunità, marito e padre. Coro, preghiera e testimonianze preziose. Non siamo mica tanto abituati a sapere cos’è un Diacono ed è prezioso averne uno membro della comunità, un “uomo comune” che ha ascoltato ed accolto la chiamata di Dio. Un evento davvero tempestivo e bello per le letture e preghiere di oggi!
Se il covid ha cancellato la festa di S.Antonio a Bergamo, fra biligocc e file di automobili in attesa di benedizione, è rimasta perenne nella chiesa l’esposizione del santissimo. Quando era un ospedale era posizionato in modo tale che tutti gli ammalati potessero vederlo.
Oggi come allora viene evocato anche per la guarigione da malattie contagiose.
Nella città, la cura.