Cibo pericoloso, scandalosa bevanda
XX domenica del Tempo Ordinario
Non credettero alle loro orecchie! Intuirono presto che quel discorso – sempre quello scaturito dopo che ebbero mangiato dei pani moltiplicati -non era alla portata di tutti. La facilità con cui mangiarono quei pani, non fu più quella nell’ascoltarlo parlare di quel Pane vivo. Parole che rischiavano perfino di confondere, di disorientare. Spaesati! A tratti spiazzati! Quel discorso – che non era solo un discorso ma la Sua stessa vita – rompeva con la tradizione. Rompeva perfino con i precetti del loro credere, dei loro riti. Se assurdo sembrava l’invito di mangiare la Sua carne, ancor più inascoltabile suonava l’invito a bere il sangue. Lui non trovò modo più chiaro per dire legame, per dire consanguineità, per far capire che tra noi e Lui circola la stessa vita, quella che viene da Dio. Loro faticarono enormemente ad accogliere questo invito. I più se ne andarono e il Vangelo non risparmia di dircelo. Come si può bere il sangue di un uomo vivo quando i precetti dell’Antico Testamento non facevano altro che ribadire il divieto? «Ogni uomo, figlio di Israele o straniero, che mangi qualsiasi tipo di sangue, contro di lui, che ha mangiato il sangue, io volgerò il mio volto e lo eliminerò dal suo popolo. Poiché la vita della carne è nel sangue” (Lv 17,10-11). E anche in Genesi (9,4) si legge: «Soltanto non mangerete la carne con la sua vita (nephesh), cioè con il suo sangue». E non fu problema da Antico Testamento. La Chiesa delle origini, come attestano gli Atti degli apostoli, mantennero questo precetto. Intanto però i discepoli di Cristo, «quelli della via» iniziavano a ripetere il comando di Gesù: «Fate questo in memoria di me» e in sua memoria spezzavano il Pane-Corpo e bevevano il Vino-Sangue di Cristo.
Perfino a Giovanni avrà tremato la mano nello scrivere a Vangelo quelle parole che suonavano scandalose e inaudite. Eppure lo scrisse. A suo rischio e pericolo. Poteva tacere ciò che aveva ascoltato. Invece scrisse. Nessuna omertà. Ebbe il coraggio della fede: ascoltò e scrisse. Era il discepolo amato: tale era la confidenza col suo Maestro che trovo il coraggio di fissare quelle parole. Anche a noi serve questa confidenza con Gesù altrimenti le sue parole rischiano di scandalizzarci. Anche a noi serve di stare più vicini a Gesù, alla sua Parola per avere quella confidenza rispettosa di chi sa di aver a che fare con un grande amico. Tre volte – non una – lo scrisse, a testimonianza: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue…»
Ma cosa è questa «carne» che noi mangiamo? Cosa significa mangiare «carne» quando il nostro gusto assapora il pane? E cosa significa bere il «sangue» quando sentiamo la dolce forza del vino? La carne è quella debole, quella che ti trema addosso quando la vita diventa spaventosamente tragedia. Quando l’Amore non è amato, quando l’Amore è frainteso, quando l’Amore è ucciso. Lui stesso provo la debolezza della carne. Era in un giardino, circondato da ulivi. Sentiva che lo spirito era pronto ma la carne era debole. Chiese in quel momento ai suoi amici – quelli che la sera prima avevano già gustato e visto com’è buono il Signore – di vegliare, di non assopirsi, di non abbassare la guardia… di non ubriacarsi, di non assaggiare altre sostanze… stupefacenti. La carne è debole… ma almeno ti permette di restare con i piedi per terra, di sentire tutta la gravità del vivere. Questa è la carne che noi mangiamo. Noi mangiamo – ogni volta che celebriamo e mangiamo l’Eucarestia, ma anche ogni volta che facciamo comunione con le fatiche dell’uomo – un pane che dice di Gesù che Egli per primo ha voluto assaporare la Vita umana; e di noi che possiamo assimilarci (renderci più simili) a Lui cercando di percorrere una via, una strada, un cammino di vita che gli assomigli il più possibile. Quando diventai prete il Vescovo nel porgermi pane e vino per l’Eucarestia, disse: «Renditi conto di ciò che farai, imita ciò che celebrerai, conforma la tua vita al mistero della croce di Cristo Signore». Sta tutto qui, in questa assimilazione-somiglianza. Se mi nutro di Cristo, della sua Vita, allora ho maggior possibilità che la mia vita diventi Sua: come Lui ma anche di sua proprietà, sicché come S.Paolo potremo dire «Non sono più io che vivo ma Cristo vive in me».
Sono giorni cattivi – per usare un’espressione della seconda lettura tratta dalla lettera agli Efesini – questi che stiamo vivendo. Sono i giorni della tragedia di Bologna, di Genova, di nuove scosse ti terremoto nel sud dell’Italia e poi nel mondo… inondazioni nel Kerala, in India e chissà quante altre fatiche della carne umana. Crolla un ponte, crollano tante speranze… emergono le domande. Quelle di sempre, quelle che accantoniamo: Chi sono? Da dove vengo? Dove vado? Domande singolari ma anche collettive.
Voleva lasciarci un segno, non delle risposte esaurienti. Troppo poco sarebbe dare risposte. Occorreva tenere alto il desiderio di camminare, di rialzarsi quando si cade. E Lui lo fece proprio con quel gesto di condivisione, di comunione. Lo fece con il dono della sua vita. L’uomo sta sospeso come tra due precipizi. Sospeso tra la domanda di partenza – da dove vengo? – e la domanda di arrivo – dove vado?. Lui tentò di spiegarglielo che la Sua vita veniva da un Padre, buono, generoso, provvido e prodigo che non trattiene per sé neppure il Figlio e l’unica condizione che pose alla Madre in Terra – Maria – fu proprio quella di non trattenerlo per sé. Lei stessa dovette imparare a donarlo, a condividerlo.
I suoi ascoltatori non compresero. Il loro sguardo vide in quell’uomo il figlio del falegname di Nazareth… e da quel paese, cosa mai poteva venire di buono. Lui continuava ad insistere nel farci comprendere che la Vita viene da Dio. Certo è fatica e sudore dell’uomo, ma al di sopra c’è questo Padre che gioisce non noi dei nostri buoni raccolti, perfino del mio orticello che mi ha sfamato quest’estate e che ancora da i suoi frutti.
«Preferisco il Paradiso, fu il grido di dentro.
Scomparve la paura di dare, di donarsi,
di morire per vivere»
(Estela Morales)