Come un riflesso
santi Filippo e Giacomo (1Cor 15,1-8 / Sal 18 / Gv 14,6-14)
Bonum est confidare in Dominum
Bonum sperare in Dominum.
È bello confidare nel Signore.
È bello sperare in Lui.
Dal Vangelo secondo Giovanni (14,6-14)
In quel tempo, disse Gesù a Tommaso: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto».
Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta».
Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre”? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere. Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse.
In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre. E qualunque cosa chiederete nel mio nome, la farò, perché il Padre sia glorificato nel Figlio. Se mi chiederete qualche cosa nel mio nome, io la farò».
Dio nessuno l’ha mai visto… il Figlio è lui che lo ha rivelato (Gv 1,18). Si concludeva con queste parole il celebre prologo del Vangelo di Giovanni, testo che viene proclamato a più riprese nel tempo di Natale, quando i nostri occhi sono rivolti all’ultimo nato, al bambino di Betlemme. Durante l’ultima cena – potremmo dire – ritornano le stesse parole, dette in altro modo, dette in prima persona: chi ha visto me ha visto il Padre. Parola che sono da associare immediatamente a tutte le opere compiute da Gesù stesso. Siamo nell’ultima cena, nel libro dell’ora di Gesù, l’ora d’essere glorificato e l’ora di glorificare il Padre. Il libro dei segni è ormai completato, non ci resta che ripensare a tutte le parole e le opere compiute da Gesù nella sua vita terrena che volge ormai tristemente alla fine. In quella sera di addii, Gesù invita i suoi discepoli a riconoscere che quanto Gesù ha fatto in quella porzione di tempo e di terra, è stata opera di Dio. Non si tratta di trovare tratti somatici, somiglianza fisiche soltanto come faremo fin dalla nascita. Si tratta di rendere visibile quel Dio che è Padre e che seppur mai visto da alcuno rimane presente, in relazione con il Figlio.
Filippo vorrebbe dire di Gesù ciò che umanamente diremmo di un qualunque figlio: «Sei tutto tuo padre o sei tutto tua madre!». A Filippo sembra mancare l’altro termine di paragone per verificare la somiglianza, per attestare l’uguaglianza. Dio è Padre e Gesù ce lo ha testimoniato: ritirandosi in luoghi in disparte per coltivare la relazione, per crescere alla sua presenza, o meglio, per dargli in se stesso il giusto spazio. Perché Dio, il Padre suo e nostro, si è come ritirato, si è come nascosto per lasciare campo d’azione al Figlio stesso.
È curioso che da credenti si possa perfino accusare Dio d’essere un Padre assente. Lo preghiamo chiamandolo «Padre nostro» e allo stesso tempo, quasi ignorando la sua presenza, diciamo «Dov’è Dio?». Semmai ci vedesse – pensiamo – starebbe troppo alla finestra a guardare, come impassibile. La vera paternità è testimoniata invece dallo spazio vitale, dal campo d’azione in cui il Figlio agisce. Tant’è – il Padre lo sa – il suo posto è nel cuore del Figlio, proprio come chiedeva la fede di Israele che cioè la Parola di Dio fosse nel cuore di ogni credente. Un Padre lo puoi conoscere proprio da come un figlio agisce, dalla libertà con cui si muove, dalle opere che compie che risultano così essere espressione di quella relazione di fiducia che c’è tra Padre e Figlio. Come potrebbe agire un figlio se nel suo cuore rimbombasse la voce che rimprovera, una voce che obblighi o costringa?
Siamo soliti parlare di paternità confondendola con un esasperato presenzialismo. In Gesù, nel Figlio, noi vediamo invece una libertà di amare, di agire che vengono proprio da questa relazione libera e liberante con il Padre. E non è un caso che il Figlio sia venuto a ridare libertà ad un popolo che spesso veniva oppresso in nome di un dio che tutto è tranne che oppressore e ossessivo.
Un quieto specchio d’acqua, liscio come l’olio, se ti fermi a guardare con attenzione improvvisamente riflette tutti i dettagli di ciò che gli sta sopra, dal verde delle foglie più vicine alla forma delle nuvole che danno spessore al cielo.
Mio Dio, come sei buono,
Tu che ci permetti di chiamarti «Padre nostro»!
Chi sono io perché il mio Creatore,
mi permetta di chiamarlo «Padre mio»?
E non solo me lo permetta,
ma addirittura me lo ordini?
Quale gioia, quale amore,
ma soprattutto quale fiducia
tutto questo deve ispirarmi!
Dal momento che sei mio padre,
o mio Dio, quanto devo sperare in te!
Non solo:
dal momento che sei buono verso di me,
quanto devo essere buono con gli altri!
Come devo avere per ogni uomo,
chiunque sia, per quanto malvagio sia,
i sentimenti di un tenero padre!
Padre nostro, Padre nostro,
insegnami ad avere questo nome
incessantemente sulle labbra
con Gesù, in lui e grazie a lui,
poiché poterlo pronunciare
è la mia massima gioia.
Possa io vivere e morire
dicendo Padre nostro.
E possa con la mia riconoscenza,
col mio amore, con la mia obbedienza,
essere un figlio che piaccia al tuo cuore.
(Charles De Foucauld)
La bellissima immagine dello specchio d’acqua e l’interessante riflessione ben si completano e mi portano a riflettere sulla dicotomia che c’è tra un Dio, che si fa chiamare Padre, e noi credenti, che dovremmo comportarci come figli ma che ancora troppo spesso (questa la mia personalissima opinione) ci poniamo piuttosto come sudditi. Intenti a contemplare da lungi una divinità cui chiediamo di aiutarci, di darci segni per credere, di castigare (meglio se espressamente ed anche un po’ scenograficamente) coloro che non seguono i tuoi dettami… Ma che quasi per nulla ci poniamo il problema di dover agire noi per primi. Eppure ai figli è da sempre richiesto di comportarsi secondo le indicazioni dei genitori. Tanto più avendo la fortuna di avere un fratello maggiore, Gesù, che tanto si è adoperato per indicarci la via. Dovremmo davvero trarre maggior insegnamento dalla natura, dai riflessi degli specchi d’acqua anche, e provare un po’ (talvolta) a farci anche noi riflessivi accogliendo in noi l’immagine di Dio Padre.
“Vivere e morire dicendo Padre nostro” e se è nostro significa che è con tutti, per tutti ed in tutti ed è questo il programma di una vita. Imparare a riconoscerLo per amarLo in tutti i Suoi figli e nostri fratelli, amarsi come Lui ci ama e sapere che quel poco o tanto che faremo al più piccolo fra noi sarà come averlo fatto a Lui. “Ti ringrazio, mio Signore” un canto riascoltato durante la celebrazione per la Prima Comunione di mia nipote, un ricordo di infanzia, un invito sempre attuale: a ringraziarLo ogni giorno della nostra vita, per la Sua eterna presenza, anche nella nostra assenza.
L’immagine del riflesso di questa mattina mi ha fatto ripensare a parole scritte pochi giorni fa, durante una passeggiata al lago dopo un lungo periodo di assistenza a mia madre. Le condivido con voi per la prima volta:
Argento fuso
il lago specchiato
di cielo
eco di gabbiani
lontani
Un raggio
di luce riflessa
mi raggiunge
e si tuffa nel cuore
Si fonde e mi acquieta
la Parola.
Buona giornata????