Dobbiamo dunque farli due conti oppure no?
XXIII domenica del Tempo Ordinario (C)
(Sap 9,13-18 / Sal 89 / Fm 1,9-10.12-17 / Lc 14,25-33)
La domenica è passata e pure il lunedì quasi volge al suo tramonto. Da poco rientrato dopo un soggiorno in Francia, a Paray-le-Monial in compagnia di alcune famiglie della Comunità dell’Emmanuele, prendo il tempo di scrivere i pensieri nati attorno al Vangelo di questa Pasqua della settimana appena trascorsa, la ventitreesima del tempo ordinario. Di questi giorni trascorsi in Francia non è da escludere che nei prossimi giorni mi metta a raccontarvi qualche simpatico dettaglio. Il mondo è piccolo mentre il cuore di Dio è ben più grande!
O Dio, che ti fai conoscere
da coloro che ti cercano con cuore sincero,
donaci la sapienza del tuo Spirito,
perché possiamo diventare veri discepoli
di Cristo tuo Figlio,
vivendo ogni giorno il Vangelo della Croce.
Amen.
Dal Vangelo secondo Luca (14,125-33)
In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro:
«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo.
Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.
Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”.
Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace.
Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo».
Le due parabole centrali – quella della torre da progettare per poi costruire quella del re che deve valutare se muovere guerra o piuttosto chiedere pace – ci spingono nelle più ovvie delle risposte. Siamo perfino nell’ordine di qualcosa di scontato, di chiaramente comprensibile. Siamo nell’ordine della prudenza, del rigore, della precisione, nell’ordine dei calcoli e della prevenzione. È così che viviamo trasformando presto i nostri progetti in conti da fare per non perdere né il sogno né la realtà. E così eccoci tutti a fare calcoli per il futuro.
In questi tempi immagino che siano in tanti a dover fare i conti con l’aumento dei prezzi, benzina, gas, elettricità, alle materie prime e così via fino ai generi alimenti di prima necessità, senza dimenticare l’acqua. Sarebbe forse utile cogliere l’occasione nefasta per insegnare ai più inesperti l’arte del risparmio o per chiederci cosa è più essenziale alla nostra vita. Insomma le due parabole evangeliche sembrano invitarci a questo lavoro di precisione e di prudenza. Eppure questa economia domestica non appartiene necessariamente all’ambito della fede. Certo, il Vangelo risplende per illuminare anche la vita più concreta e quotidiana, ma non serve il Vangelo per fare due conti.
Mi verrebbe quasi da dire che il Vangelo piuttosto non fa tornare i conti. Almeno per come noi vorremmo farli quadrare. Bastò vedere crescere il numero dei discepoli perché far che Gesù si voltasse a dettare condizioni più serie, condizioni che piuttosto mettono in crisi (nuovamente… dopo il recente brano di Vangelo nel quale eravamo invitati a passare per la porta stretta) quell’umana convinzione di chi forse s’era illuso che seguendo quel rabbi gli affari sarebbe andati meglio.
Le due parabole che invitano a calcolare sembrano piuttosto depistare. È certo e ovvio che ci si debba sedere a calcolare ma quando poi Gesù riprende il discorso diretto rivolto ai suoi uditori, senza più parabole, egli invita a lasciare tutto, anche quelle due cose sulle quali pensavano di poter contare. Chiunque di voi – disse – non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo. A cosa dunque sono serviti i nostri calcoli se poi ci chiede di lasciare tutto, poco o tanto che abbiamo stimato o inventariato? Il Vangelo non ci vuole far cadere nella trappola dell’ovvietà. Sembra perfino sconsigliarci di appoggiare la nostra esistenza su conti o calcoli ben fatti. Cosa c’è di più solido degli affetti che ci hanno introdotto nel mondo? Padre, madre, moglie, figli, fratelli, sorelle e perfino la propria vita… con tutto quello che saremmo disposti a spendere per tenerla da conto!
Seguire Gesù, essere suoi discepoli, avere il Vangelo come regola di vita comporta che, a conti fatti, impariamo a fidarci maggiormente del volere di Dio, che va ben oltre quell’umano desiderio di non andare in malora, di non sprofondare in miseria o in rovina.
Sono proprio queste parole di Gesù che – per utilizzare le parole del salmo 89 proposto dalla liturgia – fanno ritornare l’uomo in polvere azzerando quell’eccesso di sicurezza umana che sempre ha il sapore della superbia e dell’arroganza. Se anche facessimo i conti più esatti, finiremmo comunque per sottostimare quei fattori di rischio che non dipendono dall’uomo (e neppure da Dio, si intende!), fattori che potrebbero far nascere in noi quella sapienza che viene dall’alto e che ci collocherebbe più esattamente al nostro giusto posto tra le creature fragili, povere, imperfette… per le quali tuttavia Gesù non ha esitato a donare la propria vita. Per salvarne il valore!
La croce fu per Gesù il grande fattore di rischio ma egli andò ben oltre gli umani calcoli affidandosi al Padre, alla sua volontà che grazie al Figlio di Dio stesso non sarà mai più una volontà sconosciuta o inconoscibile. La volontà di Dio, il suo pensiero – bel oltre ogni umano calcolo – ha il sapore della salvezza offerta a chi vede la propria torre crollare, a chi pensava di vincere una guerra e non sa più nemmeno ricercare la pace. Una croce, una torre che crolla, un tempo di prova può assomigliare a quelle catene che legavano l’apostolo Paolo… catene che tuttavia non impediscono di generare. Ecco, la fede sembra suggerirci proprio questo attraverso le parole di Paolo dalla lettera a Filemone: Ti prego per Onèsimo, figlio mio, che ho generato nelle catene. Te lo rimando, lui che mi sta tanto a cuore.
La croce è il fattore di rischio della vita, eppure Cristo dalla croce ha generato una nuova e rinnovata comunità dei discepoli. Discepoli che non contano soltanto sulle proprie forze, che non si appoggiano solo sui propri calcoli, ma discepoli che hanno toccato con mano la forza dello Spirito nel quale il Padre ha risuscitato Gesù dai morti. Così Paolo in catene vive il suo fattore di rischio corso per l’annuncio del Vangelo come luogo per generare alla fede discepoli. Così noi pure, quando smetteremo di calcolare ciò che andiamo perdendo, e impareremo ad abbracciare nella fede i nostri fattori di rischio, torneremo ad essere generativi.
Stammi ancor vicino, Signore.
Tieni la tua mano sul mio capo,
ma fa’ che anch’io tenga il capo
sotto la tua mano.
Prendimi come sono,
con i miei difetti, con i miei peccati,
ma fammi diventare come tu desideri
e come anch’io desidero.
(Beato Albino Luciani, papa Giovanni Paolo I)
Se già lungo la lettura i pensieri andavano componendosi, ancora alla rinfusa, nella mia mente, l’ultima frase della riflessione è stata quella decisiva. Mi ha fatto pensare che l’affidamento pieno a Dio, oltre a “lasciar fare a lui”, implica anche una certa quota di “fare noi”… Non “reagire d’impulso”, ma sfruttare le difficoltà, i limiti, per trovare nuove risorse in noi. Nuove possibilità, nuove tecniche di sopravvivenza, nuove capacità. Insomma: andare oltre i nostri limiti, anziché evitare accuratamente di avvicinarvisi. Questo fa una bella differenza!
Buongiorno don,
questa cosa del minimalismo che genera creatività è Geniale!!
I fattori di rischio che non dipendono né dall’uomo, né da Dio…..ma dal concatenarsi delle diverse e varie azioni umane?
Ciao Claudia.
Fattore di rischio è forse l’uomo per l’uomo. La croce è stata pensata dagli uomini, da uomini che non sapevano quello che facevano. Prendere la croce è abbracciare proprio questo fattore di rischio e farne strumento che spiazza i progetti umani. La non-violenza che può seguire alla violenza spiazza chi è autore di violenza e chi risponde al Male con il Bene è certamente a rischio di martirio, di testimonianza autentica. Penso ad un aforisma a cui non saprei attribuire la paternità: “Se ti prepari a compiere il Bene, vedi di calcolare se sei in grado di sopportare anche il male che ne verrà insieme”. Non che il Bene abbia in sé la radice del Male, questo di certo no. Ma che davanti al Bene (e la vita di Gesù, il Vangelo non sono forse il sommo Bene dell’uomo e per l’uomo?) altri uomini progettino il Male per eliminare chi è passato solo sanando e facendo del Bene, questo – ahimè – è possibile. Neppure il Vangelo lo tace. È così che l’uomo può essere fattore di rischio per l’uomo stesso. Com’è difficile oggi fermarsi per strada e compiere il Bene… per paura che altri malintenzionati fraintendano. A volte sembra che viviamo nell’ambiguità tra lo slancio di prestare soccorso ed aiutare nel modo più naturale e spontaneo e la paura di essere denunciati per aver sbagliato qualcosa mentre prestavamo soccorso. In ogni gesto che necessità una benevola risoluzione c’è proprio questo fattore di rischio. Sapremo ancora correrlo?
Prendimi come sono, con i miei difetti, con i miei peccati,
ma fammi diventare come tu desideri
e come anch’io desidero.
Grazie, bentornato don Stefano.
Semplicemente “grazie”