Che ve ne pare?
(Is 40,1-11 / Sal 95 / Mt 18,12-14)
Sii benedetto, Signore,
che come un pastore fai pascolare il gregge
e con il tuo braccio ci raduni;
Benedetto sei Tu
che porta gli agnellini sul petto
e conduce dolcemente le pecore madri.
Dal Vangelo secondo Matteo
(18,12-14)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Che cosa vi pare? Se un uomo ha cento pecore e una di loro si smarrisce, non lascerà le novantanove sui monti e andrà a cercare quella che si è smarrita?
In verità io vi dico: se riesce a trovarla, si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite.
Così è volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda».
«Che ve ne pare?» disse Gesù ai suoi discepoli. Si apre con una domanda il brevissimo brano di vangelo, una domanda che lì per lì sembra lasciare spazio ad un dibattito, ad uno scambio di opinioni. In realtà si tratta di una precisa dichiarazione di intenti. Dio non sta chiedendo consiglio all’uomo su cosa egli debba fare. Semplicemente Gesù sta dichiarando ciò che egli è venuto a compiere.
Per meglio comprendere può essere utile riprendere i versetti precedenti. Lo spunto per questa piccola parabola della pecora smarrita è dato da un’altra domanda posta dai discepoli al loro maestro. In quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: «Chi dunque è più grande nel regno dei cieli?». (Mt 18,1). Sempre intenti a discutere di chi sia il più grande applicheremmo i nostri canoni e i nostri criteri anche al regno dei cieli. Per aprire uno spiraglio al Vangelo in quei ragionamenti ancora troppo umani, Gesù – dice l’evangelista – chiamò a se un bambino ponendolo al centro e invitando tutti a scegliere la via della piccolezza. Chiamò a sé un bambino. Come aveva chiamato a sé i suoi discepoli.
Mi chiedo se i discepoli saranno stati capaci di rivedere in quella chiamata del bambino la loro stessa chiamata. Scriverà San Paolo: «Considerate infatti la vostra chiamata, fratelli: non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili. Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono». (1 Cor 1,26-28). Consideriamo davvero la nostra chiamata a seguire Gesù Cristo. Non siamo noi ad aver scelto Lui ma esattamente il contrario, secondo criteri che non assomigliano di certo a quelli che umanamente utilizzeremmo per farci una squadra. Io che sono incapace a calciare un pallone, non m’è mai capitato d’essere scelto per primo quando si trattava di formare due squadre per mettere in piedi una partita a calcio.
Perché invece Gesù sceglie i piccoli e li fa misura del regno di Dio? Perché questa passione per gli ultimi, per gli esclusi e gli smarriti? Guardate – disse – di non disprezzare uno solo di questi piccoli, perché io vi dico che i loro angeli nei cieli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli. (Mt 18,10). E per disprezzare non servono parole, non servono giudizi taglienti. Si può disprezzare anche solo volgendo altrove lo sguardo, fingendo di non vedere. Ed è così che si finisce per smarrire la strada. A quel punto non saprei indicare se sia più smarrito il povero, il debole, l’indifeso – in una parola evangelica «il piccolo» – o colui che ha girato lo sguardo per loro disprezzo.
Il pastore si rallegra nel ritrovare la pecora smarrita e la sua gioia è, per così dire, la medesima gioia della pecora che ha ritrovato pure la strada che porta alla vita. Sono immagini di uso quotidiano quelle di colline verdeggianti e di vallate desolate e deserte dove col calare della notte non si troverebbero che pericoli e morte. Le novantanove pecore sui monti sono pecore già giunte al pascolo, sono già pecore arrivare a destinazione.
Il Signore è il mio pastore:
non manco di nulla.
Su pascoli erbosi mi fa riposare,
ad acque tranquille mi conduce.
Rinfranca l’anima mia.
Mi guida per il giusto cammino
a motivo del suo nome.
Anche se vado per una valle oscura,
non temo alcun male, perché tu sei con me.
(salmo 22,1-4)
Ed ora sappiamo che semmai dovessimo smarrirci Lui è pronto a cercarci immediatamente, senza fare alcun calcolo di interesse umano, Si legge nelle parole del libro del profeta Isaia: Sion ha detto: «Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato».Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. (Is 49,14-15)
Ecco il tempo del lungo desiderio
nel quale l’uomo apprende la sua indigenza,
cammino scavato per accogliere
Colui che viene a ricolmare i poveri.
Perché l’assenza nella notte,
il peso del dubbio nelle nostre ferite,
se non per meglio gridare verso di Lui,
per restare più saldi nella speranza?
E se le nostre mani, per invocarti,
sono troppo chiuse sulle loro ricchezze,
Signore Gesù, svuotale
per aprirle all’incontro con Te.
L’amore in noi spalancherà
il tempo nuovo che l’uomo cerca:
Vincitore del male, Tu ci dirai:
Io sono presente nella vostra attesa.
(inno dalla liturgia francofona)
Mentre leggevo la riflessione cercavo qualche parola da lasciare come pensiero e quando sono arrivata all’Inno finale mi sono detta “ecco, non c’è nulla da aggiungere, è tutto concentrato lì”.
L’Avvento e il Natale sono veramente simboli di “attesa”, di “speranza” in qualcosa di bello e buono che deve certamente accadere.
Quando eravamo piccoli, si aspettavano i doni, si gustava l’atmosfera particolare, eravamo sicuri che, per esempio, Santa Lucia venisse davvero nelle nostre case.
Da adulti non siamo stati capaci di conservare questa “attesa”, questo “desiderio”, questa certezza che di nuovo ci verrà offerto il “dono” di Gesù, anche se noi non sappiamo più chiedere.
Allora liberiamo il cuore da tutti i nostri affanni e pesantezze per ritrovare almeno un po’ quell’essere bambini in attesa di “doni” perché il dono ci dice che siamo oggetto di grande attenzione, cura, sollecitudine e amore.