Nell’ora dell’incenso
Novena di Natale – terzo giorno
(Gdc 13,2-7.24-25 / Sal 70 / Lc 1,5-25)
Spirito di Dio, noi ti ringraziamo
per ciò che hai compiuto nei tempi passati:
mai l’Amore si ricrede d’una promessa fatta.
Tu sei all’opera nel popolo
che Dio ha scelto perché fosse suo.
Tu ci mandi delle sentinelle che annunciano il giorno.
Il tuo soffio passa e fa rivivere
ciò che pare morto per sempre.
Solo tu puoi dare al peccatore un cuore nuovo, un cuore puro.
Tu ci sveli che Dio sceglie i poveri per ricolmarli.
Tu ci insegni a pregare Colui che vuole salvarci.
Sei Tu che porti verso Dio i nostri canti di gioia o le grida.
Spirito che dai tempi lontani,
un giorno sei venuto su una figlia di Israele,
copri le nostre vite con la tua ombra
perché nasca in noi l’Amore.
Dal Vangelo secondo Luca
(1,5-25)
Al tempo di Erode, re della Giudea, vi era un sacerdote di nome Zaccarìa, della classe di Abìa, che aveva in moglie una discendente di Aronne, di nome Elisabetta. Ambedue erano giusti davanti a Dio e osservavano irreprensibili tutte le leggi e le prescrizioni del Signore. Essi non avevano figli, perché Elisabetta era sterile e tutti e due erano avanti negli anni.
Avvenne che, mentre Zaccarìa svolgeva le sue funzioni sacerdotali davanti al Signore durante il turno della sua classe, gli toccò in sorte, secondo l’usanza del servizio sacerdotale, di entrare nel tempio del Signore per fare l’offerta dell’incenso.
Fuori, tutta l’assemblea del popolo stava pregando nell’ora dell’incenso. Apparve a lui un angelo del Signore, ritto alla destra dell’altare dell’incenso. Quando lo vide, Zaccarìa si turbò e fu preso da timore. Ma l’angelo gli disse: «Non temere, Zaccarìa, la tua preghiera è stata esaudita e tua moglie Elisabetta ti darà un figlio, e tu lo chiamerai Giovanni. Avrai gioia ed esultanza, e molti si rallegreranno della sua nascita, perché egli sarà grande davanti al Signore; non berrà vino né bevande inebrianti, sarà colmato di Spirito Santo fin dal seno di sua madre e ricondurrà molti figli d’Israele al Signore loro Dio. Egli camminerà innanzi a lui con lo spirito e la potenza di Elìa, per ricondurre i cuori dei padri verso i figli e i ribelli alla saggezza dei giusti e preparare al Signore un popolo ben disposto».
Zaccarìa disse all’angelo: «Come potrò mai conoscere questo? Io sono vecchio e mia moglie è avanti negli anni». L’angelo gli rispose: «Io sono Gabriele, che sto dinanzi a Dio e sono stato mandato a parlarti e a portarti questo lieto annuncio. Ed ecco, tu sarai muto e non potrai parlare fino al giorno in cui queste cose avverranno, perché non hai creduto alle mie parole, che si compiranno a loro tempo».
Intanto il popolo stava in attesa di Zaccarìa, e si meravigliava per il suo indugiare nel tempio. Quando poi uscì e non poteva parlare loro, capirono che nel tempio aveva avuto una visione. Faceva loro dei cenni e restava muto.
Compiuti i giorni del suo servizio, tornò a casa. Dopo quei giorni Elisabetta, sua moglie, concepì e si tenne nascosta per cinque mesi e diceva: «Ecco che cosa ha fatto per me il Signore, nei giorni in cui si è degnato di togliere la mia vergogna fra gli uomini».
Nell’ora dell’incenso, quando gli occhi del sacerdote Zaccaria e del popolo in attesa si sarebbero rivolti a contemplare volute di fumo che salgono verso il cielo ad impregnare di profumo ogni cosa, un angelo del Signore – una Parola dal cielo – scende sulla terra. La Parola di Dio ha un certo peso, come un giogo che si posa sulla vita dell’uomo, un gioco che tuttavia è donato per alleggerire o – secondo quanto dirà Elisabetta – per togliere la vergogna fra gli uomini.
Non avere figli – non avere discendenza – suonava dunque come presagio di morte, di fine, di un cammino che non potrà avere seguito. La fede personale è sempre fede legata ad un cammino che si fa dentro un popolo, dentro una serie di generazioni. La genealogia di Gesù che apre il vangelo di Matteo dice anche questo. Zaccaria ed Elisabetta, per quanto fossero giusti e irreprensibili nell’osservanza dei comandamenti, portavano nel loro corpo un presagio di morte.
Non consola nemmeno il fatto di non essere gli unici a non avere figli. La Scrittura è piena di racconti di grembi sterili. Quello sarà il luogo dove Dio posa il suo Spirito datore di vita e improvvisamente, come in un deserto, tutto rifiorisce, tutto rinasce, tutto rivive. L’aridità del deserto e la sterilità dei grembi non spaventano affatto Dio, perché in lui è custodito il seme della Vita, la Parola che se accolta e ascoltata può far rinascere, può far risorgere.
Zaccaria, incarna forse un modo di credere stanco, ridotto ad esteriorità rituali di cui certamente abbiamo bisogno. Ma se tutto rimane all’esterno, se tutto accade al di fuori di noi… a poco serve. È il grembo di Elisabetta ad essere sterile. Non è un dettaglio ma un’aggravante poiché nella cultura ebraica è la madre che dona la fede al figlio. Il padre dovrà occuparsi in seguito di istruirlo quanto ai precetti. Non c’è dunque opportunità alcuna per quest’anziana coppia di sposi se tutto fosse limitato ad un piano puramente umano.
Ma ecco l’intervento divino. Il divino che parla. Il divino che dialoga. Il divino che invita ad accogliere, a credere e a sperare contro ogni speranza. Zaccaria da voce all’incredulità umana e improvvisamente viene ridotto al silenzio per non aver creduto alla parola di colui che può fare grandi cose tra noi. Quel figlio annunciato non sarà neppure un figlio qualunque. Di quel figlio è già tracciata la vocazione, la missione: egli sarà grande davanti al Signore; non berrà vino né bevande inebrianti, sarà colmato di Spirito Santo fin dal seno di sua madre e ricondurrà molti figli d’Israele al Signore loro Dio. Egli camminerà innanzi a lui con lo spirito e la potenza di Elìa, per ricondurre i cuori dei padri verso i figli e i ribelli alla saggezza dei giusti e preparare al Signore un popolo ben disposto.
La sterilità e l’anzianità dei due coniugi tolgono prospettive di bene, chiudono l’uomo in una rassegnazione che si può anche camuffare dietro obbedienze esteriori… ma il cuore di Zaccaria giunge perfino a sospettare che Dio stesso sia incapace di ascoltare le preghiere, di comprendere il linguaggio degli uomini. L’angelo chiede anzitutto di credere che Dio ascolta le richieste dell’uomo, soprattutto se queste intaccano la sua dignità o la sua presenza nel mondo. Dio, nell’Antico Testamento, sempre si è mostrato in ascolto degli oppressi e la sua parola ha sempre fecondato la terra perché ancora possa portare il suo frutto.
Mi chiamate Maestro e non mi ascoltate.
Mi chiamate Luce e non mi vedete.
Mi chiamate Guida e non mi seguite.
Mi chiamate Sapiente e non mi interpellate.
Mi chiamate Vita e non mi desiderate.
Mi chiamate Bontà infinita e non mi amate.
Mi chiamate Magnanimo e non mi pregate.
Mi chiamate Eterno e preferite la vita che passa.
Mi chiamate Misericordioso ma non vi pentite.
Mi chiamate Signore e non mi servite.
Mi chiamate Dio e non mi onorate.
Mi chiamate Giusto giudice e non mi temete.
Se manca la gioia di chi è la colpa?
(parole scritte sulle pareti esterne della cattedrale di Lubecca)
La vicenda di Elisabetta, a ben pensarci, è stata forse la mia prima palestra di allenamento alla fede. Ricordo bene quando, ancora adolescente, iniziai saltuariamente a pregare Dio affinché mi concedesse -magari entro i 30 anni (beata innocenza di bambina!)- di trovare un bravo uomo con cui sposarmi e avere figli “ma non prima che io abbia trovato un buon lavoro!”. Questo chiedevo, questo speravo, del tutto ignara di ciò che la vita mi avrebbe riservato. Ben lungi dalla linearità che immaginavo da piccola, con tempi e modi decisamente diversi. Ma c’è sempre stato come un “appuntamento” saltuario, e forse un po’ speciale, ogni qualvolta, di anno in anno, mi capitava di sentirmi una “fallita delle relazioni”, magari anche in qualche modo guasta, timorosa di aver fraiteso il volere di Dio per me… Eccomi tornare, più o meno accidentalmente, ad Elisabetta ed alle altre “dette sterili” della Bibbia, e sentire chiara, dentro di me, la spinta a non perdere la fede, che a Dio “nulla è impossibile”. Ed eccomi qui, oggi, a quarant’anni, in compagnia del mio fidanzato da una parte e della nostra piccola creatura dall’altra, ringraziando Dio “a pieno cuore” per l’immensità dell’amore che ha messo lungo la mia strada e a cui io, dall’alto della mia ignoranza, stentavo a credere.