Elogio di una maniglia
memoria dei santi Marta, Maria e Lazzaro, amici di Gesù
(1Gv 4,7-16 / Sal 33 / Gv 11,19-27)
Confesso di non aver mai fatto grandi riflessioni attorno ad una maniglia. Forse davanti ad una porta, sì. Ma mai, davvero mai, davanti ad una maniglia. E allora: ci avete mai pensato a cosa succede ogni volta che appoggiando una mano applichiamo una più o meno leggera pressione su quell’aggeggio? In quel gesto si dichiara esplicitamente la propria scelta libera di uscire nel mondo o di lasciare che qualcosa di questo stesso mondo entri presso di noi. È pure il nostro mondo che apriamo quando servendoci di una maniglia, tirando o spingendo di conseguenza una porta, apriamo un varco e permettiamo un accesso. Un incontro. Lo stesso pensiero, lo stesso ragionamento è altresì valido nella variante negativa. Tuttavia se non apro… il risultato è ben diverso.
Confesso dunque di non aver mai fatto meditazione davanti ad una maniglia. È la banalità delle cose? L’abitudine del quotidiano? Gesti che compiamo un’infinità di volte nella vita o nell’arco di una giornata. E davvero non ci pensi troppo. Poi un bel giorno – e davvero è bello questo giorno! – ti trovi accompagnato per raggiugnere una sala nella quale celebrerai due messe nell’arco della mattinata, per due gruppi di persone ben distinti. Si sono passate almeno dieci porte. Tutte chiuse a chiave e nemmeno la chiave era in mio possesso. Insomma, si dipende da chi può aprire e da chi può chiudere. Ovviamente chi ti accompagna ha pure il compito di verificare che dietro di te, ad ogni passaggio, la porta si chiuda. Sempre a chiave.
Ho celebrato questa mattina l’eucarestia nel carcere femminile non lontano dalla città. La riflessione è iniziata lì. Davanti a quelle porte che io né aprivo né chiudevo; davanti a quelle maniglie che permettevano comunque l’apertura di un varco. Perché poi ci sono altre porte che di maniglie non ne hanno. Solo una chiusura a chiave. La mia stanza da letto ha una maniglia ed io apro e chiudo quando voglio. Lì, tra le mura di quelle celle dove si è condannati a dormire, mangiare e vivere un certo tempo della propria esistenza… non si ha nemmeno più la libertà di poter decidere quando azionare l’ingranaggio che apre o chiude. A certe ore si apre e ad altre si chiude. È tutto. E la condanna è proprio questa. Una porta senza maniglia è il simbolo più innocuo e banale che dice condanna.
Due celebrazioni dell’Eucarestia. Una per chi è rinchiuso preventivamente in attesa di sentenza. Una per chi è già condannato e attende che il tempo della pena passi. Una volta entrato tra quelle mura ci si scopre svuotati di qualsiasi pensiero che potrebbe indurre ad un giudizio, spesso frutto di pregiudizi, di luoghi comuni, di paure. L’aumonière des prisons (termine francese che in italiano tradurremmo con «cappellano delle prigioni») mi spiega con estrema delicatezza – ed io ascolto come uno che non sa nulla di questo mondo – che qualcuno finisce lì dentro solo perché fra tre mali ha dovuto a fatica scegliere quello minore: spacciare? prostituirsi? rubare?… ovviamente non per il gusto di trasgredire ma per mantenere tre figli nati da un matrimonio di altra cultura che noi occidentali diremmo forzato. Spacciare le sembrava pericoloso. Per tutti. Prostituirsi s’è detta incapace di farlo. E dunque non rimaneva che la terza soluzione. Il resto e cioè quel nostro: «Avrebbe potuto… avrebbe dovuto… se avesse fatto…» tutto questo è il nostro logico condizionale, il nostro gentil ragionamento che forse scioriniamo pure per difenderci un po’ e per assolverci da un’eventuale indifferenza piuttosto globale o largamente diffusa. Ecco perché dico: davvero non si può giudicare lì dentro. Altri lo faranno o lo hanno già fatto. Davvero non si può giudicare perché in qualche modo sentenzieremmo anche su chi sta dall’altra parte della porta. Ogni giudizio dice qualcosa dei due mondi: quello carcerato e quello sedicente libero.
Ovviamente cemento e solo cemento. Anzi no. Anche parecchio ferro: sbarre, cancellate, filo spinato, portoni robustissimi tutti rigorosamente in ferro. Ma niente verde: una piccola pianta davanti all’altare nella cappella che queste donne guardano come per desiderarla, come per dire che l’avessero nella loro cella saprebbero prendersene cura. E come vorrebbero! Un piccolo cortile interno, accanto alla stanza dove abbiamo celebrato, non ha né ghiaia né cemento. Lì c’è terra e un po’ di erba. Mi si racconta di gesti che hanno dell’incredibile: quando si può accedere a quel cortile le donne si gettano a terra per annusarla. Mi vengono i brividi al pensiero di come troppo spesso camminiamo su questa stessa terra senza sapere che davvero per tutti è «terra santa».
All’Eucarestia vengono vestite come per una festa. E festa è davvero. Difficile distinguere appartenenze o confessioni religiose. Ciò che sanno per certo è che paradossalmente tra quelle mura c’è un tempo di libertà dove poter stare insieme come fratelli e sorelle, davanti ad un altro giudice. Il Misericordioso. È evidente a me come a loro che il Signore verrà a quell’appuntamento, facendosi presente, come fece la prima volta da risorto, senza bisogno d’essere accompagnato per entrare, senza passare di porta in porta. Addirittura attraversando quella alta e spessa cinta muraria.
«Ce ne sont pas les gens bien portants qui ont besoin du médecin, mais les malades. Je ne suis pas venu appeler des justes, mais des pécheurs». «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Mc 2,17) Non c’è bisogno in quel luogo di fare la morale, di spiegare cosa è peccato o cosa è male. Lo sanno? Lo hanno compreso? Lo stanno comprendendo? O forse altri lo hanno sentenziato e basta? Sta di fatto che questa parola è capace di rassicurare e mettere a proprio agio davanti a Colui che ha scelto di essere presente tra i peccatori. Quanta resistenza opponiamo a questo riconoscerci peccatori. Preferiamo sempre dire che grandi mali non ne abbiamo compiuti o che di peccati non ne abbiamo proprio. E poi ci stupiamo di non provare la benché minima gioia dello Spirito quando ci sentiamo dire che il Signore è venuto proprio per i peccatori.
Si fa memoria oggi degli amici del Signore: Marta, Maria e Lazzaro. E penso alla porta di casa loro. Penso alla maniglia o a qualcosa che all’epoca potesse assomigliargli. Penso all’amicizia di questi tre fratelli con Gesù. Ci penso proprio in questo contesto. Vedo con i miei occhi il bene che fa la Parola del Vangelo nel cuore di queste donne. E anche nel mio. Oggi la salvezza è entrata tra quelle mura. Quelle donne, prive di una maniglia sulla porta della loro cella, prive della possibilità di poter aprire o chiudere una porta, sanno però che c’è una maniglia a cui avremo sempre accesso.
«Ecco: sto alla porta e busso.
Se qualcuno ascolta la mia voce
e mi apre la porta,
io verrò da lui,
cenerò con lui ed egli con me»
(Ap 3,20)
Non c’è morto che non possa conoscere nuovamente la Vita. Non c’è peccatore che non possa conoscere Misericordia. Non c’è carcerato che non possa gustare Libertà. Qui e ora. E poi un bel giorno. Anche oggi abbiamo gustato com’è buono il Signore.
Dal Vangelo secondo Giovanni
(11,19-27)
In quel tempo, molti Giudei erano venuti da Marta e Maria a consolarle per il fratello. Marta dunque, come udì che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa.
Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà».
Gesù le disse: «Tuo fratello risorgerà». Gli rispose Marta: «So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno».
Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?». Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo».
Prova a pregare questo salmo, provando a metterti semplicemente nei panni di chi sta dietro una porta senza maniglia. Prova a pensare quanta gioia possono procurare queste parole al cuore di un carcerato.
Benedirò il Signore in ogni tempo,
sulla mia bocca sempre la sua lode.
Io mi glorio nel Signore:
i poveri ascoltino e si rallegrino.
Magnificate con me il Signore,
esaltiamo insieme il suo nome.
Ho cercato il Signore: mi ha risposto
e da ogni mia paura mi ha liberato.
Guardate a lui e sarete raggianti,
i vostri volti non dovranno arrossire.
Questo povero grida e il Signore lo ascolta,
lo salva da tutte le sue angosce.
L’angelo del Signore si accampa
attorno a quelli che lo temono, e li libera.
Gustate e vedete com’è buono il Signore;
beato l’uomo che in lui si rifugia.
Temete il Signore, suoi santi:
nulla manca a coloro che lo temono.
I leoni sono miseri e affamati,
ma a chi cerca il Signore non manca alcun bene.
(salmo 33)
Grazie don Stefano per aver posto, attraverso un piccolo oggetto, attenzione su un luogo dove la sofferenza è sempre presente.
Anche a me, in un corso di formazione, era stato detto in generale di “sospendere il giudizio” davanti a qualsiasi persona o situazione, giudizio che facciamo scattare ancora prima di conoscere fatti e situazioni, ma anche questa conoscenza non ci dà diritto di giudicare.
Di recente sono stata invitata ad assistere a un lavoro teatrale, fatto dai carcerati del carcere di Bergamo.
Con semplicità e fatica, ma anche tanto coraggio, si sono messi in gioco e si sono raccontati.
A me è sorta una riflessione…
Facciamo fatica a frequentare i “luoghi di dolore” dove uomini e donne, nostri fratelli, passano un pezzo della loro vita, eppure è lì che Gesù è più presente e ci aspetta perché possiamo portare speranza, senza giudizio.
Grazie don Stefano.
Grazie don Stefano, questa Tua riflessione aiuta a riflettere in noi, a prendere con gioia ed apprezzare con gratitudine la vita di ogni giorno, prenderci l’impegno di aprire il nostro cuore per queste nostre sorelle e fratelli con le nostre preghiere
In un corso di formazione ho appreso che le vere scelte etiche non sono quelle tra il bene ed il male, ma tra il bene ed il bene ed in questo caso anche tra un male e quello minore, che donne e uomini alle volte si trovano costretti a scegliere. Chi sono io per giudicare? Eppure ancor sì troppo facile mi è ancora il giudizio in pensieri e parole. E allora, Signore, Ti chiedo perdono perché ho più io da farmi perdonare che loro. Fa’ che possano sentirsi amate, raggiungile con il Tuo abbraccio misericordioso spalancando le loro celle, perché possano entrare cielo e terra.
«Nell’amore vero non siamo noi ad amare gli sventurati in Dio, è Dio in noi che li ama. Quando siamo nella sventura, è Dio in noi che ama coloro che ci vogliono bene. La compassione e la gratitudine discendono da Dio, e quando vengono donate attraverso uno sguardo, Dio è presente nel punto in cui gli sguardi si incontrano»
(Simone Weil, Attesa di Dio)
Grazie Don Stefano per questa preziosa e toccante condivisione
Grazie don Stefano per averci fatto parte di questa nuova esperienza che hai fatto. Spero sia l’inizio di una lunga missione.
….e così accade che ad ogni passo di vera evangelizzazione si venga evangelizzati.
Come è accaduto a te stamattina. E il tuo scrivere, dopo aver vissuto, è semplice testimonianza.
Grazie per l’articolo. Grazie di cuore.
Stamattina non potevo dormire, senza alcuna ragione. Alle sei, dicevo le lodi del giorno. Non credere: non lo faccio mai. I salmi andavano bene per quelle donne e per te: forse per questo ho dovuto recitarli.
E poi è qualcosa, credo, di collegato a san Francesco: al suo SeguirLo ben prima di aver tutto capito.
Vivere di Lui è – a quanto pare – l’unico modo di “capirlo”, parola in fin dei conti assai povera.
(Alla donna che per non spacciare e non prostituirsi s’è decisa a rubare, io non son degna di allacciare i sandali…: lo sai, vero? Dillo anche a lei: dille di me: dille che le posso scrivere anche in carcere, anche settimanalmente, purché lei non perda il ricordo della terra e del verde che vi germoglia; mi perderi con lei: è lei che salva me).
Semplicemente grazie