A bocca aperta
XVIII domenica del Tempo Ordinario
(Is 55,1-3 / Sal 144 / Rm 8,35.37-39 / Mt 14,13-21)
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Ha sete questa tua creatura vivente, o Dio!
Anche Tu finito con gridare dall’Albero: “Ho sete”…
con la voce di tutti gli assetati ti chiediamo, Signore,
un po’ di refrigerio a tutte le nostre arsure.
Insegna a tutti, Signore, cosa è un uomo,
questo essere più grande del mondo intero.
Amen.
(David Maria Turoldo)
Dal Vangelo secondo Matteo (14,13-21)
In quel tempo, avendo udito della morte di Giovanni Battista, Gesù partì di là su una barca e si ritirò in un luogo deserto, in disparte.
Ma le folle, avendolo saputo, lo seguirono a piedi dalle città. Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, sentì compassione per loro e guarì i loro malati.
Sul far della sera, gli si avvicinarono i discepoli e gli dissero: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare». Ma Gesù disse loro: «Non occorre che vadano; voi stessi date loro da mangiare». Gli risposero: «Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci!». Ed egli disse: «Portatemeli qui».
E, dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull’erba, prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli, e i discepoli alla folla.
Tutti mangiarono a sazietà, e portarono via i pezzi avanzati: dodici ceste piene. Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini.
Se riuscissimo, anche solo per una volta, a togliere l’etichetta di “miracolo” da questo racconto avremmo modo di cogliere spunti maggiori piuttosto che fermarci, a bocca aperta, a cercare di descrivere un’azione prodigiosa di cui noi, in fondo, non saremmo capaci. In genere, ciò che appare miracoloso rischia di toglierci da questa possibilità di comprendere e scrutare in profondità.
Terminata, tragicamente e paradossalmente, la vita di Giovanni Battista durante la festa di compleanno di Erode, Gesù pare aver bisogno di prendere distanza e per riflettere a quanto accaduto si ritira, come spesso faceva, in un luogo in disparte. Come mai tanta violenza nelle mani dell’uomo? Da dove tanta ferocia?
C’è insita nell’uomo questa animalità che si intuisce spesso dal modo con cui si mangia. Far crescere un uomo è anzitutto addomesticare quella fame bestiale. Quel bambino che vede il mondo come una grande mela e il seno materno come simbolo della sua unica fame saziata ha bisogno di imparare, crescendo, che mangiare tra uomini è qualcosa di più che togliersi la fame. Mangiare da uomini non è riempire la propria pancia in barba a chi ancora sente davvero i morsi della fame.
Guardata così, la scena descritta da Matteo ci permette davvero di intavolare discorsi molto più ampi, considerando pure tutte le ricadute sul vivere quotidiano. Gesù non compie questa moltiplicazione dei pani per affermare la sua potenza ma per insegnarci a vivere insieme, per lasciarci la possibilità di intravedere l’origine di certi ingordi comportamenti ancora presenti nel nostro tempo. Fame e sete sono bisogni primi che ci collocano sempre al nostro posto: fragili creature sempre in bilico tra vita e morte.
Il cibo poi, se lo sappiamo guardare così, racconta sempre di vita sacrificata perché altri vivano. È l’uomo, appunto, che deve cogliere questo mistero racchiuso nella sua fame. Quando noi ci nutriamo per vivere, questo è sempre conseguenza di una donazione gratuita. Certo, animali o vegetali di cui ci nutriamo non hanno questa coscienza, ma di fatto è la loro morte che produce il nostro sostentamento e quindi la nostra vita.
Quel giorno Gesù, prendendo il discorso molto alla larga, stava avvicinandosi all’ora in cui lui stesso avrebbe fatto dono di sé. Sulla croce ma ancor prima “nella notte in cui fu tradito” radunando i suoi discepoli attorno alla tavola. “Prendete e mangiatene tutti. Questo è il mio corpo dato. Prendete e bevete. Questo è il mio sangue della nuova alleanza per il perdono dei peccati”. Nelle parole dell’ultima cena Gesù riassume il senso della sua vita: noi siamo al mondo non tanto per divorare e divorarci, ma per imparare a far dono di noi per la vita altrui. Lo disse già velatamente: “Voi stessi date loro da mangiare“, dove non si comprende bene se “voi” è pronome personale di coloro che semplicemente distribuiranno da mangiare o di coloro che si faranno cibo a loro volta per la vita dell’uomo.
C’è solo un modo per contenere l’indomabile istinto animalesco dell’uomo davanti al cibo. Interporre, tra noi e il cibo su cui ci stiamo per avventare, alcune parole. La bocca non è per l’uomo soltanto l’organo della nutrizione che incamera calorie per la combustione e il funzionamento della macchina. La bocca nell’uomo – e soltanto nell’uomo – è segno dove i suoni si fanno parola. Sulle labbra dell’uomo la parola si fa carne, si rende udibile per una complessa connessione tra pensiero e corde vocali, tra mente e muscoli.
Dire con le labbra “Padre nostro che sei nei cieli… dacci oggi il nostro pane quotidiano” significa già interporre tra me e la fame quella giusta distanza necessaria per rendermi conto che non solo io ho bisogno di pane. Bastano le semplici parole di una preghiera per capire che non posso avventarmi da solo su quel cibo. Quando partecipiamo all’Eucarestia accade proprio questo. Il rito in sé è molto semplice: tra noi e il Pane (Corpo di Cristo donato a noi) che condividiamo mettiamo anzitutto delle parole per arrivare a comprendere che non di solo pane vive l’uomo. La vita si nutre per effetto di donazione e condivisione e non è una corsa tra avventati avventori. È motivabile questo istinto umano di preoccuparsi del cibo (paura di morire) ma è fuori di dubbio che vada umanamente educato. Abbiamo ancora negli occhi le immagini di scaffali vuoti nei supermercati presi d’assalto all’inizio del lockdown. Gesù Cristo ha fatto la sua parte nell’educarci ad una sana oralità. Os, oris è il nome latino della bocca da cui deriva perfino la parola orazione, preghiera. Tra me e il cibo metto una preghiera, una benedizione che (se ovviamente ne ho compreso il senso) mi permette di trovare quel giusto equilibrio tra me e il mondo, tra me e gli altri. E posso perfino digiunare.
Il vero miracolo sta nella possibilità che la feroce belva umana si trasformi in un uomo di comunione. Ecco perché oggi andiamo all’Eucarestia: per ottenere misericordia di tutta la nostra disumana prepotenza e per essere educati da Dio a comprendere cos’è la vita dell’uomo. Per questo Egli non rifiuta di preparare per noi una tavola, non rifiuta di rivolgere a noi le sue parole, a noi che, senza rimedio, siamo sempre quel popolo affamato nel deserto che nemmeno davanti al dono della manna, quel pane venuto dal cielo, riesce a smettere la mormorazione e il lamento.
Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini… eppure noi sappiamo quanto contano donne e bambini per questo processo di crescita. Con la bocca dei bambini e dei lattanti – come recita il salmo 8 – il Signore confonde la prepotenza e l’ingordigia dei superbi. Quando in casa, vicino a te, senti un bambino che impara ad addomesticare i suoni poco articolati degli umani istinti trasformandoli in parole che marcano l’inizio di una relazione – ecco! – proprio in quel momento possiamo rallegrarci che è già iniziata l’umanizzazione. Quando il suono mmmm diventa mamma e la parola pappa diventa papà, Dio è già all’opera, con l’aiuto di due genitori, per fare di quel cucciolo ingordo un vero uomo che troverà presto in che modo donare se stesso come cibo per il mondo, come vita per gli altri.
Tu non ci chiedi, Signore Dio,
di fare miracoli,
di moltiplicare i pani.
Non appartiene alla nostra povera misura.
Tu ci chiedi di distribuire sulla terra
ciò che Tu hai voluto come bene per tutti,
in attesa di saziarci per sempre al tuo banchetto.
Potessimo davvero imparare a con-dividere con tutti gli uomini e le donne che incontriamo sulla nostra strada quel poco che siamo ed abbiamo (tempo, denaro, cibo, ma anche uno sguardo, una parola, un abbraccio…), lasciandoci ispirare da quell’unico e grande Maestro che provo’ compassione per le folle, senza distinzione alcuna.
Istruisci Tu, o Signore, i nostri cuori e le nostre menti.
Parola e Pane…Anche una semplice preghiera prima di iniziare a mangiare fa diventare la nostra tavola “altare domestico” dove celebriamo l’amore donato e la condivisione…
“Voi stessi date loro da mangiare.”
È una proposta generosa da parte di Gesù. Ci insegna ad aiutare il prossimo, dare il nostro tempo, energie. Farci carico delle necessità altrui, imparare a non guardare dall’altra parte. È donandosi agli altri che salviamo noi stessi.
Il Vangelo di oggi mi ha richiamato Emmaus…dopo un momento di sofferenza,la morte di Giovanni Battista,ecco Gesù che chiede solo un poco di disponibilità,pochi pani e pochi pesci che nelle sue mani diventano Dono per molti… infine la gioia che trabocca nella sazietà e nell’abbondanza. Chissà se quella gente sarà corsa come i discepoli di Emmaus ad annunciare la compassione di Gesù…?
Veramente il mangiare è vita e morte, è dono.
Insegnaci,Signore, a condividere perché è il segreto della vera vita.