“Quale gioia…” cantavano, ma Lui pianse
Spirito santo di Dio, togli il velo ai nostri occhi. Togli l’illusione fallace che alberga nel cuore degli uomini. Vieni a riempire della Tua umile e dolce presenza queste fragili creature, sempre ai limiti di fraintendere ogni cosa. Fa’ di noi degli umili e semplici discepoli di Cristo. Amen.
Dal Vangelo secondo Luca (19, 41-44)
In quel tempo, Gesù, quando fu vicino a Gerusalemme, alla vista della città pianse su di essa dicendo: «Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, quello che porta alla pace! Ma ora è stato nascosto ai tuoi occhi.
Per te verranno giorni in cui i tuoi nemici ti circonderanno di trincee, ti assedieranno e ti stringeranno da ogni parte; distruggeranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata».
Quale gioia quando mi dissero: “Andremo alla casa del Signore” e ora i nostri piedi si fermano alle tue porte, Gerusalemme (salmo 121). I pellegrini ebrei, che dovevano una volta l’anno recarsi nella città santa, si avvicinavano ad essa cantando i cosiddetti salmi delle ascensioni. Gerusalemme è collocata a 754 metri sul livello del mare. Se poi consideriamo che Gesù vi ci arrivò da Gerico che sta a 250 metri sotto il livello del mare, la salita prevedeva un dislivello di circa mille metri. Ma quella salita era simbolo di un’ascensione spirituale, un innalzamento che sempre l’uomo rischia di confondere con una supremazia.
Le labbra si aprivano a cantare parole di gioia e di soddisfazione come quando raggiungi la meta tanto desiderata, ma aveva il cuore già pieno di lacrime proprio a causa di questo fraintendimento. Lo avevano preso come il Messia che avrebbe affermato l’autonomia di quel popolo liberando quella terra soprattutto dal dominio dei romani. Alcuni già da tempo pensavano che fosse venuto per restaurare il regno… L’equivoco lievitò a dismisura quando, entrato in Gerusalemme, lo accolsero come un re trionfante. Un solo dettaglio: non entrò a cavallo, simbolo di regalità, ma a dorso d’asino. Quello del presepio, se volete. Nel senso che nonostante fosse già dichiarata la mitezza di quel bambino appena nato fin dall’inizio del Vangelo, non compresero affatto il valore di quel modo che Dio aveva scelto per essere presente in mezzo agli uomini.
Gerusalemme, dopo il lungo pellegrinaggio nel deserto ai tempi dell’Esodo è simbolo di meta raggiunta, di terra finalmente trovata secondo la promessa fatta ad Abramo e sulla città santa riposa la presenza di Dio, quella presenza che si traduce anche con “gloria” e che durante i quarant’anni di cammino dall’Egitto fin lì, si muoveva accompagnando fedelmente il popolo nel suo pellegrinare verso la terra promessa. Ogni volta che piantavano tende, Dio faceva scendere la sua presenza, la sua gloria nella tenda che era designata come tenda dell’Alleanza. Si abituarono proprio a quella presenza di Dio nel fargli e disfargli una tenda. E la Sua tenda fu sempre la prima ad essere piantata quando sostavano nel cammino. Finché giunti sulle alture stupende, costruirono la città di Gerusalemme al cui centro, più che simbolicamente, vi era il grande e unico Tempio. In maniera definitiva Dio fece scendere la sua gloria, la sua presenza condensandosi e concentrandosi proprio nella stanza più segreta e più santa del Tempio. Da qui l’amore per Gerusalemme, da qui l’amore per il pellegrinaggio annuale. Da qui questo carico di attese. Attese di un popolo che comunque sottostava alla dominazione romana. Ma pure attese di quel bambino nato a Betlemme, divenuto ormai un uomo adulto e maturo per quel suo desiderio infinito di dare la vita.
L’uomo che in vita disse di non piangere e che perfino risorto da morte ancora dirà: “Perchè piangi?” ora è triste fino alle lacrime, alla vista della città santa. Tristezza che gli avvolgerà l’anima fino alla morte (Mc 14,34). E non è capriccio di bambino… perché già parlava di morte. Piange e lamenta l’equivoco. Lo hanno confuso, scambiato per un altro. Non sarà il Nazareno quel Messia immaginato, sognato e atteso dal popolo. Quell’umile cavalcatura sulla quale fece ingresso in Gerusalemme doveva richiamarli esplicitamente al passo della Scrittura contenuto nel libro di Zaccaria dove si legge: “Esulta grandemente figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina“. (Zac 9,9)
Le traduzioni fan sempre un po’ difetto perché nell’espressione “giusto e umile” ci starebbe un’espressione che potremmo meglio tradurre con “bisognoso di essere salvato“. Colui che era appena entrato in Gerusalemme su questa cavalcatura da profezia non sarà il salvatore sperato dai suoi, quanto piuttosto un uomo che farà esperienza, lui pure, di quella salvezza che Dio non ha mai negato a coloro che a Lui si rivolgono, i cui passi sono proprio orientati da questa speranza di salvezza. Andare a Gerusalemme non era dunque pellegrinaggio di potenza, di vittoria conquistata a forza, quanto piuttosto era espressione di una vita fraintesa, apparentemente fallita ma comunque affidata alle mani di Dio. Per questo pianse alla vista della città.
C’è da piangere davvero quando equivochiamo Dio e gli uomini confondendoci con immagini di potenza. La potenza di Dio si manifesterà ora nella debolezza e nell’umiltà e non più sulle note di guerre sante. Questo Figlio dell’uomo entrato in Gerusalemme è l’umiltà che porta alla pace. Ma l’uomo non comprende. Soprattutto quando è nella prosperità. Soprattutto quando il suo benessere lo illude di potere… E questo – solo questo – è l’inghippo che porta alla rovina. Parliamo anche solo un attimo di noi: ci voleva il celeberrimo virus per strappare dalla faccia della terra questo delirio di onnipotenza? Non basterà neppure quello seppure stia mietendo vittime… finché gli uomini non comprenderanno la via che porta alla pace. Ci serve più umiltà, un maggior bisogno di essere salvati e non certo la competizione a tutte le età e a tutti i livelli della vita. Siamo sempre a rischio di essere più dei competitors che dei compagni semplici e umili che stanno a farsi compagnia nel cammino della vita. E la vita per molti sembra sempre e soltanto un gioco a premi.
Gerusalemme, nel 70 d.C. venne effettivamente assediata e rasa al suolo. Pure il tempio fu distrutto e pure quella fu una replica di qualcosa che era già avvenuto. Non sempre gli errori del passato insegnano. Non basta. Occorre che possa entrare tra le mura delle nostre illuse sicurezza colui che ci porta la pace. Parlava del Tempio del suo corpo… e anche in quell’occasione lo fraintesero. Sosteneva che l’uomo è il tempio santo dove Dio ha scelto di far scendere la sua gloria. Essere presenti a questa gloria di Dio pur nella nostra debolezza è il vero pellegrinaggio da compiere.
Pur non capendo, ho capito
che non ho capito nulla di Te.
Pur non trovando l’ultimo valore,
ho capito la tua parola.
Non so chi porta il tuo messaggio
a tutto il corpo, a tutta la mente,
attraverso i miei respiri,
i batter d’occhi, la vita,
le pene, le ansie, i colpi.
Pur non capendo, ho capito
che non ho capito nulla di Te.
Il tuo regno si estende di spazio in spazio,
in un batter d’occhio ho ricevuto questa notizia,
quando ho perduto il tuo universale dominio
dentro il cuore.
Pur non capendo, ho capito
che non ho capito nulla di Te.
Nel silenzio profondo dell’animo,
dove Ti ho potuto conoscere,
tutte le parole si fermano
in tacita sconfitta.
Pur non capendo, ho capito
che non ho capito nulla di Te.
Nel tempio della vita pare
risuonino sempre i tuoi canti.
Nel loto del cuore pare
regni sempre il tuo trono.
Ritorno dal tuo bel mondo
pieno di gioia:
pare che la polvere dei tuoi piedi
sia adatta a coprire il mio corpo.
Nel tempio della vita pare
risuonino i tuoi canti.
Alla tua parola di pace
si sperde ogni invidia,
le rime dei tuoi canti manifestano
la dolcezza del cuore della terra.
Vedo per tutto il cielo
il tuo sorriso puro e silenzioso.
Davanti alla tua magnificenza pare
che tutto l’orgoglio scompaia.
Nel tempio della vita pare
risuonino sempre i tuoi canti.
(Rabinandrath Tagore)
” Amare, voce del verbo morire”
È quello che vedo nel pianto di Gesù che guarda Gerusalemme, perché non ha riconosciuto la Sua presenza in mezzo a loro. È la forza dell’amore che fa piangere,quando si tocca con mano il limite. Signore Gesù, Tu piangi anche per me, quando il mio cuore indurito non ascolta la Tua voce, quando giustifico ogni mia scelta contro il bene dei fratelli.
Donami di gustare la Tua presenza salvifica, affinché la lode a Dio sia sulla mia bocca.
Certo, come si dice, non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire e cieco di chi non vuol vedere!
I nostri fratelli maggiori, gli Ebrei, conoscevano le scritture e i profeti, hanno visto i segni che faceva Chi camminava lungo le loro strade, hanno ascoltato le Sue parole…
Fa tristezza tanta cecità voluta…
Lui che ha pianto l’amico Lazzaro, che ha poi riportato in vita dando sollievo al dolore, piange per una tragedia che non può impedire.
Ora i suoi occhi sono pieni di luce e sono sempre fissi su di noi aspettando che diventiamo noi tempio di Gerusalemme pronti finalmente ad accoglierLo.
Signore aiutami sempre più a comprendere le tue parole, ad accoglierTi e seguirti in questo pellegrinaggio verso la mia Gerusalemme.
E tu Gesù che eri venuto ad asciugare ogni lacrima e che vedevi nelle lacrime di uomini dal cuore sincero dei lapislazzuli di umanità, permetti a noi oggi di asciugare le Tue, quelle che forse ancora verseresti perché mai capito, accolto e seguito veramente e fino in fondo. “Tienici con Te, con la gioia nel cuore, nonostante tutto…ovunque, in ogni tempo e luogo… Tienici con Te!!”.