La voce e i belati
Ferruccio Pagni (1866-1935), Paesaggio all’imbrunire con pastore e gregge di pecore
IV domenica di Pasqua (B)
(At 4,8-12 / Sal 117 / 1Gv 3,1-2 / Gv 10,11-18)
Apparve in forma umana. Venne alla luce per compiere la volontà del Padre. Usciva da Dio per venire ad abitare tra gli uomini. Trovò presto steccati di resistenza e recinti di paure tra i suoi . E poi c’erano altri che sconfinavano per incontrarlo. Incarnavano quell’umano desiderio di uscire, di conoscere, quel bisogno di aprirsi piuttosto che chiudersi come di pecore che hanno bisogno di pascolare in cerca di fresche erbe e acque. E sarà lo stesso desiderio di vita che lo spingerà ad andare oltre la morte. Non senza prima aver donato la vita per i suoi e per tutti.
Non esitò a definirsi come il pastore bello. Buono è solo Dio e non smetteva di ripeterlo. Si definì il bel pastore e non era vanità. Era un invito alla contemplazione. Quando lo innalzarono da terra appendendolo ad una croce, di bello ormai aveva più nulla eppure chiese di volgere a Lui lo sguardo. Non aveva ne apparenza ne bellezza per attirare gli sguardi (Is53,2). Dopo che percossero il pastore le pecore si dispersero (Mc 14,27) le radunò – risorto – una ad una. Li trovò rinchiusi nel Cenacolo dove lasciò il segno del suo modo di donarsi. In quello stesso luogo si fece riconoscere risorto. Di quello stesso luogo saranno spalancate le porte e lo Spirito spingerà quelle pecore intimorite ad uscire. Lui sarà anche la porta di quel passaggio.
Ma cosa sappiamo noi di pecore, pastori e pascoli? Praticamente quasi più nulla se non quei quadri surreali e pieni di poesia che a volte si creano nelle nostre campagne, a margine delle nostre strade dove sfrecciano macchine di un mondo totalmente tecnicizzato e industrializzato. E ormai già digitalizzato. Praticamente più alcuna impronta di passaggi, di transumanze e di uscite… solo tracce tattili su schermi digitali, segni paradossali di un uomo che ha bisogno di uscire, di esplorare ma che ormai si riduce a farlo dentro i bordi di uno schermo digitale. E si pascola nello spazio quasi infinito del virtuale, dove anche l’andare all’Eucarestia è sostituito dallo starsene comodi a casa per vedere o sentire la Messa in televisione. E chissà se avremo, ad un certo punto, il coraggio di dire alle nostre amate pecorelle che, spente le telecamere, il primo segno che siamo discepoli di quel pastore sarà proprio uscire dalle proprie case, magari con le gambe un po’ tremanti dopo quello che s’è vissuto…. ma essere Chiesa significa letteralmente e anzitutto essere chiamati fuori. Dalle nostre case prima, dai nostri pregiudizi, dalle nostre paure… e poi dalle tombe.
Questo fa il pastore bello. Ai piedi della croce, nel Vangelo di Giovanni, rimasero una donna e un discepolo amico. Soltanto loro resistono all’atroce spettacolo di un crocefisso. E mentre lo guardano cercando di contemplare oltre quella morte in corso, che Vita ne sarebbe venuta, proprio Lui, il pastore bello contemplava ai suoi piedi quella nuova relazione già segno che la sua morte non era l’ultima parola. «Donna – disse – ecco tuo figlio. Figlio, ecco tua madre». (Gv 19,26-27). Una nuova relazione, una nuova custodia, un gregge che già si raccoglie.
Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. (1 Gv 3,2) e così camminiamo nella fede, non ancora nella visione (2 Cor 5,7). Per questa visione sappiamo però che è necessario il cammino e per camminare è necessario uscire. L’Agnello condotto al macello è divenuto il bel Pastore per quel suo cammino fatto in mezzo agli uomini. Colui che giudicavamo castigato e percosso da Dio fu riconosciuto come Figlio di Dio.
Forse sapeva, parlando di pecore e pastore, che un giorno di quel mondo non ne sarebbe rimasta traccia se non nei nostri presepi a Natale? Eppure non sappiamo nemmeno raccontare, costruendo – come tradizione vuole – un presepio quale significato hanno quelle greggi di pecore e di pastori. Mancano ancora otto mesi al Natale: ma provate già ora a preparare una piccola lezione di catechesi domestica. Immaginatevi lì a costruire il presepio e preparate nella mente e nel cuore le parole da dire per ogni pecora che appoggerete sul muschio. E già li vedo – pastori e pecore – tutti orientati verso quel Bambino. Raccontante la mansuetudine degli agnelli e dell’Agnello di Dio. Fate sentire la voce del Pastore tra i belati delle pecore. In fondo non è che un grande belare questo vivere e questo pregare. E pure questo scrivere.
Padre nostro che sei nei cieli, donaci padri e madri sulla terra che sappiano portare i tuoi figli in giro per il mondo a riconoscerTi. Siano voci della tua Voce. Almeno una eco della tua Parola. E «pastorale» non sia la definizione specifica di tutte le attività all’interno della Chiesa. Pastorale sia aggettivo qualificativo di ogni comportamento umano, di chi chiama ad uscire i proprio figli, di chi fa venire alla Luce l’umano secondo Dio, di chi invita ad ascoltare la voce del Pastore perché impariamo anche noi a parlare e agire come Lui. Figli e pecore lo saremo sempre. La vocazione, la chiamata, è questa spinta a diventare padri, madri e pastori di qualche cucciolo che ci vien dietro perché la Vita ci spinge in avanti e oltre noi stessi proprio invitandoci a dare la vita per chi verrà dopo di noi.
Dio, nostro Padre,
donaci di ascoltare oggi la voce di tuo Figlio,
il pastore delle pecore,
perché, riuniti in un solo gregge,
gustiamo la gioia di essere tuoi figli.
Amen.
Dal Vangelo secondo Giovanni (10,11-18)
In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.
Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».
Dio, Tu sei il nostro Padre,
e nessuno ci ama come tu ci ami,
e ci rispetti, e ci vuoi liberi; e ci salvi:
perché noi, ancor più che creature,
siamo figli tuoi:
Padre, se grande è la tua grazia
di ciò che siamo ora, cosa sarà
quando noi saremo simili a te,
e ti vedremo e ti contempleremo
faccia a faccia nella beata visione!
Padre, aiutaci tu stesso a salvare
la nostra dignità.
Gesù, pastore che dai la vita
per le tue pecorelle
e tutti ci chiami per nome:
anche per me solo, come per ognuno,
tu saresti venuto sulla terra:
noi siamo sempre più smarriti,
erranti per pascoli sempre più aridi:
fa’ che torniamo a te
unico pastore delle nostre vite.
Amen.
(David Maria Turoldo)
Signore, anch’io sono una pecora del Tuo gregge e qualche volta mi allontano da Te, lasciando pascoli erbosi ed acque tranquille dove Tu mi conducevi.
Eppure,Tu ogni volta mi raccogli fra le Tue braccia amorose e sul Tuo cuore mi fai riposare.
Queste letture mi hanno fatto tornare in mente la nonna materna e il suo modo, tutto particolare, di essere “pastora” del gregge dei nipoti, e pure con una certa autorevolezza al limite dell’antipatia per noi piccoli. Cosí diversa dalla filosofia che guidava e guida ancora mia madre: che indirizza ma nemmeno troppo, lascia libertà rispetto alla fede e ciascuna di noi figlie, nel brivido del “volo libero”, si è poi posta delle domande e trovato il proprio modo di vivere e agire la fede tutti i giorni. Due linee guida così diverse ma entrambe così importanti e fondanti per definire il nostro essere cristiane nella vita innanzitutto.