Avrei preferito non raccontare di apparizioni, ma se proprio devo…
VI domenica di Pasqua (B)
Festa del Santuario Madonna delle Quaglie a Lurano (BG)
(At 10,25-27.34-35.44-48 / Sal 97 / 1Gv 4,7-10 / Gv 15,9-17)
Passatemi oggi qualche riflessione un po’ a margine, seguendo piuttosto i profumi e il tepore della primavera, insieme al sentire di gente semplice: il mese di maggio fa rima con «festa della mamma», svariate ricorrenze mariane e passeggiate in campagna all’inizio della bella stagione. Da queste parti, quasi tutti i paesi hanno un loro santuario intitolato a Maria, la Madonna. Piccolo o grande che sia.
Ai più piccoli spiegavo ieri mattino durante il «Laboratorio della Parola» che in tempi antichissimi il sogno di ogni ragazza era quello di diventare – in un certo senso – una Madonna, una mea domina, una donna il cui valore aumentava ancor di più quando gli occhi e le attenzioni di qualcuno le cadevano addosso. Facciamo un esempio: Madonna Pica era la signora di Pietro di Bernardone, la madre di Francesco di Assisi. La fanciulla di Nazareth, Maria, è diventata Madonna da quando Dio le ha messo gli occhi addosso. Molto prima di ogni nostra devozione.
Non c’è paese da queste parti che non si sia costruito un santuario mariano. Spesso in riferimento a particolari vicende storiche o manifestazioni soprannaturali. Di quanto è accaduto qui, preferirei quasi non raccontare. Non si tratta di scetticismo a proposito di apparizioni mariane. Il fatto storico, al limite della leggenda, dice piuttosto di noi, del mondo degli umani. In questa faccenda del santuario c’è di mezzo anche una quaglia. Personaggi: due cacciatori, un frate. E ad un certo punto – ospite d’onore – la Madonna. Altre comparse le affido alla vostra fantasia: cavalli bardati, cani da caccia. Abiti di scena: quelli della metà del XV secolo.
Si racconta dunque di due cacciatori, appartenenti a due nobili famiglie locali, probabilmente uno del paese ove mi trovo e l’altro del paese limitrofo. La caccia era una passione da signori. I poveri probabilmente non avevano né mezzi né tempo per andare a caccia. E dire che trattasi di due nobili cacciatori è per sottolineare che la fame non era di certo un loro problema. Improvvisamente si odono due colpi di fucile. E siamo in linea con la storia: l’invenzione delle armi da fuoco – i primi archibugi – risalirebbe al 1250.
Un po’ di romanzo: dai cespugli in aperta campagna partono alla ricerca della preda i migliori amici dell’uomo, degli splendidi cani da caccia. Li seguono di ricorsa i loro padroni. I validi cani da caccia, provenenti da direzioni opposte, arrivano entrambi nello stesso punto proprio dove una quaglia è stata abbattuta ed è precipitata al suolo. Morta.
E qui sta il punto: il luogo e il momento esatto di cui avrei preferito non parlare. Fu l’inizio di una contesa o forse l’ennesima occasione – per lo più discretamente banale – per riaccendere tenzoni storiche mai sopite, come accada spesso tra paesi confinanti o famiglie benestanti. Ma la storia, non temete, avrà un lieto fine. Per questo continuo a raccontarla.
Come bambini capricciosi, i due cacciatori iniziarono a litigare per rivendicare la proprietà della quaglia e la paternità di quel colpo mortale. Nobiltà di stirpe non sempre fa rima con galanteria o gentilezza: incapaci di donare o di condividere ciascuno rivendicherà quella quaglia come propria. E prima che la quaglia diventasse il futile motivo per riaccendere un combattimento – già che erano ben armati – una bella signora appare tra i due uomini. La Madonna: cosi bella, bellissima da attirare gli sguardi dei due. Lei, Regina della pace, semprecapace di far cessare le contese, come una brava mamma quando interviene a mettere pace tra fratelli che litigano. Stavano giocando, si stavano divertendo… e improvvisamente ecco il litigio. Stavano cacciando: un divertimento, una passione, un passatempo, uno sport dell’epoca per gente benestante. Il pane s’è sempre guadagnato col sudore della fronte. Il gioco rischia di debordare in litigio.
La Madonna suggerì ai due di recarsi al convento dei frati (frate – non si dimentichi – è il diminutivo di «fratello») che li avrebbero aiutati a dirimere la questione. E così, mossi dalle parole di quell’invito, i due si recano a quel convento di cui oggi non rimane traccia alcuna. Un frate – il priore stesso, se lo vogliamo scomodare per dare solennità alla questione o il custode che è vocabolo più francescano – mentre ascoltava attento il racconto dei due, fu il terzo testimone del fatto prodigioso che fece gridare al miracolo: la quaglia si rianimò e spicco nuovamente il volo.
«L’è’n dàcia la quaia!» [è andata la quaglia] diventa espressione dialettale bergamasca di cui non necessariamente rivendicheremo il marchio e l’origine… ma pare davvero l’espressione popolare più bella per descrivere il fatto. La quaglia se ne era volata via e i due persero l’occasione (questo suggerisce l’espressione) di dirli l’uno più potente dell’altro.
Crederci oppure no – verità o leggenda – è pur vero che ogni storia tramandata ha sempre un fondo di verità e se fosse anche solo un racconto ben inscenato, magari inventato da un parroco del tempo per dire qualcosa ai suoi parrocchiani o all’uomo in genere senza offendere alcuno, allora il racconto vale ancora la pena d’essere raccontato. Siamo facili a rivendicare proprietà e per quella soddisfazione di dire «è mio!», fin da piccoli si cominciò a litigare. È compito di una madre e di un padre educare i figli a dire: «è nostro!». E quando due pretendenti continuano a litigare l’occasione della condivisione è già perduta e la quaglia piuttosto che restare oggetto di contesa e non il segno di una condivisione (non c’avevano nemmeno pensato che avrebbero potuto spartirsi quel bottino?) è restituita al cielo, alla sua libertà, alla vita stessa.
Il bello della storia, la morale della favola è tutta da scoprire e bisognava dunque arrivare in fondo, senza nascondere la vergogna di raccontare un motivo di contesa alquanto banale. Si prova certo un senso di vergogna a raccontare dei nostri fraterni litigi. Ma quando è la mamma ad intervenire allora se ne impara la lezione e si è risollevati a questioni davvero più nobili, come a cercare le cose di lassù, senza perderci in piccolezze terrene.
Stento a credere che Maria, la Madonna, sia apparsa per una quaglia, ma credo che valga sempre la pena l’intervento di una Mamma se deve riportare pace tra fratelli. E se Maria abbia proprio chiesto di andare al convento dei frati questo non lo so… ma è bene considerare questo invito a fare ciò che un Altro fratello ci ha chiesto. Era il tempo in cui non si leggeva in Vangelo come possiamo fare oggi. In questa storia della Madonna delle Quaglie, pare di sentire in sottofondo, ora che sappiamo e possiamo leggere il Vangelo, le stesse parole di Maria a Cana: «Fate quello che vi dirà», chiedendo a quei servi, non solo di versare l’acqua che si trasformerà in vino, ma offrendo la felice possibilità di diventare amici – più che servi – del loro Signore, proprio obbedendo al suo comandamento. E questo, stando al Vangelo di oggi è il suo comandamento: che ci amiamo come lui ci ha amati. E questa è tutta una storia di pane e vino condivisi e di perdono offerto gratuitamente, fino alla morte. Non di una quaglia ma del Figlio di Dio.
Venne dunque costruito un santuario. Pare, dicono sempre i racconti, che perfino il santuario stesso divenne luogo di contesa circa la sua proprietà. Si racconta che dovettero intervenire le autorità della Chiesa per definire su quale porzione di terreno fosse il santuario della Madonna delle Quaglie. Ancora oggi le cure e la custodia di quel luogo santuario sono affidate alla comunità di Lurano ma chi lo frequenta proviene da ogni dove. È forse questo il segno che ci sono luoghi dov’è possibile vivere insieme? Era forse necessaria questa storia, questa apparizione e questo edificio per scoprire che nella condivisione della terra c’è pace? Se così è, ben venga tutta questa storia che non esiteremmo dunque a chiamare sacra per quel frutto che può ancora portare.
Oggi, di questi tempi da social, fioriscono sui profili dei parrocchiani immagini che illustrano la bellezza del posto, la campagna in continua evoluzione, queste continue primavere dopo i lunghi inverni. Tutto invita alla conversione, al rinnovamento, all’apertura. Si leggono sui social parole che esaltano la pace e la quiete del posto, la gradevole frescura quando la canicola estiva si fa prepotente da queste parti.
Si scopre così che un santuario è di tutti. È casa di preghiera per tutti i popoli. Altrimenti è spelonca di ladri. Sappiamo bene che ogni Santuario (forse che venga da qui la rivendicazione di proprietà?) è anche fonte di introito: quelle candele che splendono sempre esprimono la fede di una preghiera che accendiamo per illuminare il buio di un preciso momento della vita, ma quella piccola moneta, che benignamente mamme e nonne insegnano ancora ai piccoli a far cadere nel luogo dell’elemosina, diventa segno di un’offerta di comunione, indice di quella carità che non avrà mai fine, nemmeno quando circondati dai nostri dolori, non chiudiamo il nostro cuore alle necessità altrui, non fosse altro che quelle della comunità stessa, che – vi assicuro – è sempre ben attenta ai poveri. Non spegniamo la carità, non spegniamo la comunione. Non perdiamo l’occasione di fare il bene, di condividere… prima che un’altra quaglia voli via!
[Nota: spero che il racconto della miracolosa apparizione della Madonna delle Quaglie, fatto da una persona che non è nata in questo paese, non abbia urtato la sensibilità di chi invece è nato qui o di chi si aspettava questo genere di racconti mariani descritti in altro modo. Intenderei, da prete di mezza età, attualizzare semplicemente un antico messaggio perché il suo contenuto credo sia eternamente valido per ogni figlio di questa terra]
Già è un prodigio amare, Signore,
ma prodigio ancora più grande e raro
è amare come tu ci hai amati:
è solo per questo avverbio modale
che il comando antico di tutte le religioni
diventa nuovo e unico nel tuo vangelo,
essenza e compimento della nostra fede:
così solamente saremo tuoi veri amici, Signore.
Amen.
(David Maria Turoldo)
Dal Vangelo secondo Giovanni (15,9-17)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.
Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi.
Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».
Salve dolce Vergine, musica di Marco Frisina
Salve dolce Vergine
Salve dolce Madre
In Te esulta tutta la terra
E gli cori degli angeli
Tempio santo del Signore
Gloria delle vergini
Tu giardino del Paradiso
Soavissimo fiore
Tu sei trono altissimo
Tu altar purissimo
In te esulta, o piena di grazia
Tutta la creazione
Paradiso mistico
Fonte sigillata
Il Signore in Te germoglia
L’albero della vita
O Sovrana semplice
O Potente umile
Apri a noi le porte del cielo
Dona a noi la luce
Oggi mi sento di ringraziare ogni santuario mariano ed ogni festa e celebrazione legata ad esso perché, molto spesso, queste sono occasioni di condivisione comunitaria autentica. Ci si organizza in gruppi per provvedere alle decorazioni da mettere fuori dalle case per la processione (se prevista), ci si organizza in gruppi per gestire esposizione e cassa di eventuali bancarelle in tema. Se è previsto un servizio ristorazione, ci si organizza anche per quello: chi mette la materia prima, chi mette del tempo per le preparazioni, chi mette del tempo per il servizio ai tavoli. Ciascuno come può, ciascuno secondo le sue peculiari doti, ma tutti insieme per il servizio comune, e questo è bello, è davvero bello!
In queste occasioni credo davvero si riesca anche noi, piccoli craponi umani, a percepire un po’ dell’autentico senso di “rimanere nell’amore” e agire l’amore gli uni per gli altri. Tutte queste occasioni servono, servono eccome!