Portare in salvo

Categoria :Omelie
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Data :15 Agosto 2018

Assunzione di Maria 1

1   Le riflessioni che seguono fanno riferimento alle letture che la Liturgia propone sia nella Messa della Vigilia (1Cronache 15,3-4.15-16; 16,1-2 – 1Corinzi 15,54-57 – Luca 11,27-28) come nella messa del giorno dell’Assunta (Apocalisse 11,19; 12,1-6.10 – 1Corinzi 15,20-26 – Luca 1,39-56). Altri riferimenti evangelici o biblici vengono così…

Tentiamo di salvare ciò che abbiamo di più caro: lo facciamo con i ricordi e con gli oggetti, con le persone e perfino con gli animali. Perdere la memoria è un dramma. Cadere nell’oblio è un dramma. Perdere un oggetto caro – un simbolo appunto di incontri e di alleanze umane è un dramma. Il popolo di Israele aveva caro un’oggetto, cara era un’arca – «Arca dell’Alleanza» la chiamarono – segno della presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Rischiarono di perderla, di farsela rubare. Venne profanata… riuscirono a metterla in salvo e a darle una degna collocazione. In alto, seppur sotto il velo di una tenda. Sicurezza da rocce inaccessibili e fragilità della tenda. Per l’occasione un gran concerto: arpe, cetre, cembali e canti. Finalmente l’Arca di Dio, il segno della sua presenza in mezzo al popolo era nuovamente al sicuro. Dio è «sano e salvo», la fede sta in piedi perché riusciamo a dire dove abita. Fosse così semplice! Non voleva case per sé. Lui (il Padre come il Figlio) apriva cammini. Chiedeva fiducia e forza per andare verso il luogo che Lui avrebbe indicato. Perché costringerlo ad abitare «solo» e «soltanto» dove vorremmo noi? Anche i discepoli di Giovanni, chiesero all’Agnello di Dio (a Gesù): «Dove abiti?» (Gv 1,38) Egli non diede un indirizzo geografico ma una direzione, una condizione: seguire Lui. È bisogno umano di collocare dio da qualche parte: tutto l’universo pare ancorato a quel perno e la vita pare girare più sicura. Ma così l’uomo si accomoda e non cerca più. Da pellegrino diventa sedentario per poi trovarsi – presto o tardi – costretto a difendere questa o quella proprietà, dio compreso. Perdonerete l’apparente errore: dio con la d minuscola… perché questo è il dio che noi ci fabbrichiamo. L’Arca dell’Alleanza – non lo compresero facilmente – voleva essere il simbolo della compagnia di Dio nel cammino del popolo.

Un-Dio insegnava loro, nel suo rivelarsi poco a poco, che le cose preziose vanno messe in salvo, tante o poche che fossero. Di preferenza quelle più piccole, quelle semplici, umili. Persone o popoli; uomini e animali che fossero. Il primo fu Noè – considerato ubriaco per quell’impresa – che accolse la proposta di salvare una coppia per ogni specie. Accadeva nella grande arca… ma ugualmente nel più piccolo particolare. È storia di una madre e di un figlio che dovette essere salvato dalle acque per ricevere il nome di Mosé. Un cesto per lui cosparso di pece e poi via, sulla cresta delle onde, oltre lo sguardo infimo e corto del Faraone, fino a cadere sotto lo sguardo più alto di un’altra donna, figlia dello stesso faraone. Libera di non ascoltare progetti mortali del padre, libera di disobbedire al Male. Oltre la legge cieca di quel momento, prende quel figlio e lo salva. E la storia si ripeterà, si ripete… toccò pure a Lui, al bambino di Betlemme. Sarebbe ancora oggi Parola di Dio, sua narrazione se tante vite in balia delle onde o attraverso i deserti… trovassero salvezza.
Ci vuole intelligenza – e pure una gran dose di fantasia – per salvare ciò che abbiamo di più caro. Non un salvataggio uguale all’altro! Ogni salvataggio unico. Ogni persona unica. Per questo concepisco che ogni Uomo meriti salvezza. D’altro canto l’enigma che ti hanno posto da ragazzo non lo saprai mai risolvere: «Cosa o chi salveresti in caso di pericolo mortale?»… non sapresti chi, perché già molti ti sono preziosi. Vorresti salvare tutto e tutti. E dovendo scegliere, non sapresti. Per Colui che vuol salvare tutto e tutti, per chi vuole ricomporre, radunare e raccogliere, non sarà mai questione di numeri – «Nella casa del Padre mio vi sono molti posti» (Gv 14,2) aveva detto – ma piuttosto di come farci trovare la strada che porta dove Lui dimora, una Casa in alto, al sicuro, in salvo dalle sabbie mobili nelle quali ci perdiamo quotidianamente, dalle mareggiate che annegano i nostri cuori, dai deserti che inaridiscono e prosciugano le nostre vite rendendole lagnose e lamentose. Non CHI salvare dunque, ma COME salvare.
Dalla prima all’ultima pagina della Scrittura, come Alfa e Omega, da Principio a Fine, Dio accompagna l’Uomo a vivere il suo stesso desiderio: salvare. Invitandoci a salire. Si salva cibi o oggetti mettendoli in alto, al riparo; ci si mette al sicuro costruendo in cima ad un monte, su una roccia; si salva insegnando ad alzare lo sguardo – «Alzo gli occhi verso i monti, da dove mi verrà l’aiuto?» (salmo 121) – spingendo a salire monti e colline, come Mosè, come Elia, come Maria, come Gesù stesso, con i suoi compagni Pietro, Giacomo e Giovanni; si salva invitando a guardare un cielo trapuntato di stelle. Si salva portando nel deserto, dove Dio prepara rifugio per i suoi amici. Si salva facendo venire alla luce, quella luce che non può essere nascosta. Ci ha salvati, salendo in alto… in croce.

Di certo, dovremo riuscire prima di tutto a liberare questa festa dell’Assunzione di Maria al cielo dagli eccessivi spiritualismi, da troppo facili devozioni, e perfino dalle definizioni dogmatiche che mai come oggi «chiudono» invece che dischiudere. Diciamo con tanta libertà: tutto ci interessa in questi giorni fuorché una seria riflessione attorno a quel pungiglione che ci fa così male quando ci colpisce: la morte. Perché di questo si tratta. Da questo cerchiamo scampo! Da questa paura di morire e dalla morte stessa desideriamo nel profondo di essere salvati.
C’è un’operazione urgentissima – quasi chirurgica – da fare alla nostra fede: salvare Dio dalla nostra visione che lo vuole ancora troppo legato al nostro mortale destino, Lui troppo spesso responsabile – stando alle nostre parole – della nostra morte. Se volessimo aiutare Dio a salvare l’uomo, credo dovremmo a nostra volta salvare quel volto di Dio che Gesù ci ha mostrato: egli non vuole la morte dei suoi figli, non gode della loro rovina. Per questo la Madre riceve l’ordine di dargli un nome che è al di sopra di ogni altro nome: Gesù – «Dio-salva» – e ogni volta ha un modo nuovo per salvarli, per strapparli dalla corruzione della morte. È urgente: non associare mai più Dio con le nostre morti. Col nostro peccato… quasi fosse lui ad averci lasciato fare.
Altro lavoro immane che dovremo trovare il coraggio di fare è quello di tornare a coniugare insieme anima e corpo. Spirito e Corpo, per essere precisi. È il dogma – se volete – a chiedercelo. Maria è assunta in cielo, anima-spirito e corpo. Ma noi siamo ancora qui a preoccuparci del corpo mentre vive e dell’anima solo quando il corpo esala lo spirito e ritorna alla polvere. E la questione tornerebbe di nuovo come nell’enigma d’infanzia… cosa salvare: lo spirito? Il corpo?

Dio salva! Questo è l’annuncio per le nostre vite, queste vite che cerchiamo disperatamente di tenere unite, in qualche modo, dentro e fuori di noi. Ci salva Colui che vuole che nessuno dei suoi figli, neppure il più piccolo vada perduto! Parola di Gesù stesso, parole di queste domeniche d’estate nel capito 6 di Giovanni: «Questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno.» (Gv 6,39)
Per il Figlio la missione fu chiara. Il prezzo: la sua stessa vita! Ma non rinunciò tanto gli parve chiaro il disegno del Padre: liberare dalla morte. E questo significava – prima della morte corporale – perdonare il peccato, restituire a piena comunione chi ne era escluso, che fosse per la durezza del cuore, per la Legge o perfino per libera scelta. Perdono per quel figlio che se ne volle andare o per chiunque fosse stato cacciato sotto il titolo disgraziato di «impuro». Perdono per chi si fosse semplicemente smarrito perché è duro il mestiere di vivere. Liberava dal peccato, togliendo dai nostri vicoli ciechi senza scampo e senza uscita, bui e profondi come la notte del dolore e della morte. Perdonare fu per Lui come togliere il pungiglione di un insetto velenoso. Quel frammento di corpo estraneo – così apparentemente insignificante una volta conficcato – infetterebbe ancora aggiungendo dolore a dolore.
Forse è per questo motivo che la Chiesa ci consegna oggi questo giorno di festa, parlando dell’assunzione al cielo di Maria: non ha conosciuto la corruzione del sepolcro colei che non conobbe il pungiglione del peccato. Dolore ne provò, sì! Glielo predissero quando presentò il Figlio al Tempio. Il Suo dolore fu il dolore di madri che vedono morire un figlio. La resurrezione fu dono per la Madre che seppe vegliare in attesa che primo di una moltitudine di fratelli, quel Figlio venisse sciolto da ogni legame con la morte. Dal Padre. Quando anche noi riusciremo a sciogliere questo strano legame, questa umana connessione che facciamo tra Dio e la nostra morte; quando ancor più saremo in grado di perdonarci i peccati gli uni gli altri, allora anche noi saremo più lievi, anche noi saremo finalmente liberi dalla paura di dare la vita invece che trattenerla, anche noi avremo forza per spingere la Vita, come una donna che deve partorire. E non si trattiene né si risparmia da quelle spinte. Cantando, però! Dimentichi di quel dolore per la gioia che è venuto al mondo un figlio. (Gv 16,21) Non lamentando la durezza del nascere, del far crescere, del fare vivere e venire alla Luce, ma cantando il meraviglioso Dio che innalza gli umili e li salva.
Un giorno, mentre Gesù parlava in mezzo ad una folla, una voce femminile si levò a fare l’elogio della madre. «Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato!» (Lc 11,27). «Beati piuttosto…» disse. Generato e nutrito da Maria, pareva forse misconoscere il dono? Non fermatevi al grembo e neppure al seno. C’è da crescere! Spostò l’attenzione e l’accento cadde altrove. Vera beatitudine è ascoltare e mettere in pratica la Parola. Vera beatitudine è essere discepoli. Quel Figlio è frutto del suo ascolto, è Parola messa in pratica, è Parola fatta carne. La Madre fu discepola fin dal suo primo «Eccomi». Oltre il grembo e il seno della madre, lo stesso Figlio dichiarò che altro era il suo cibo: fare la volontà del Padre. Vale davvero la pena di trovare ancora oggi nutrimento nella Parola di Dio: racconto interminabile di salvezze donate, di ascensioni e assunzioni, di perdono e di resurrezione. Ogni vita umana è eloquenza di Dio. Ogni vita umana ha in sé la forza di mettere al mondo il Figlio di Dio, di raccontare Dio-che-salva.

«Preferisco il Paradiso, fu il grido di dentro.

Scomparve la paura di dare, di donarsi,
di morire per vivere»

(Estela Morales)


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Piccoli Pensieri (1)

Arianna

Ce n’è parecchio ancora in giro di questo “dio” con la minuscola, umanissimamente adattato entro confini chiari, netti e limitati per meglio venire incontro a quell’umanissima necessità di essere SEMPRE rassicurati. Rassicurati anche da grandi, naturalmente, perché l’uomo e la donna somo e restano in balia della carne. È la carne ed il sangue di cui siamo fatti che ricordano ció di cui il corpo ha bisogno, lo orientano come fari nella notte. Sole che poi ci prendono la mano con le luci, e finisce che non si vede più nient’altro, anche lo Spirito non si vede più. Ecco, anche, a cosa serve la fede: ad aiutarci a tener d’occhio lo Spirito. Evidenziare un po’ di più quello e spegnere un po’, o quantomeno attenuare, la più invadente luce della carne.

15 Agosto 2023

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