Quello sguardo che fece segno
XVIII domenica del Tempo Ordinario
La paura che manchi pane. Che non ce ne sia a sufficienza per tutta la fame degli uomini. E poi l’altra paura. Anzi, la stessa paura. LA grande paura dell’uomo: la paura di morire. Nel Vangelo di Giovanni al racconto della moltiplicazione dei cinque pani e due pesci segue un episodio apparentemente accessorio. Gesù se ne era andato. Anche quello fu un chiaro segno: non voleva acconsentire a che lo eleggessero loro re. Quella stessa sera i discepoli se ne tornano a casa, nella loro Cafàrnao, utilizzando il mezzo di trasporto loro congeniale. Fu un attimo e la paura li stava nuovamente vincendo: un forte vento, il mare grosso e persino il loro Maestro che li stava raggiungendo camminando sulle acque, di colpo, anche di lui ebbero paura. «Sono io, non abbiate paura!» furono queste le poche parole sufficienti a riportare la calma… o semplicemente a riportarli a casa, sulla riva dov’erano diretti. Tutto chiaro, no? La paura! Sempre lei. Paura di non avere cibo è sempre sinonimo della paura di morire.
La folla intanto continua la sua ricerca… ma quale ricerca? Quella di un Rabbì che possa essere loro re. Fu anche quella ostinazione. Cercarlo e ancora cercarlo ma unicamente per farlo re. Se ne andò unicamente perché non si arrendessero nel cercarlo. Lui si accorse presto che non bastava andarsene: occorreva una Parola chiara – dal sapore di una sentenza – a spiegare la loro incomprensione, la loro cecità, la loro non volontà di comprendere quel segno. Quando il saggio indica col dito la luna, lo sciocco guarda il dito. Si erano fermati al dito che indicava ma non riuscirono ad andare fino al segno. Occorreva che imparassero a riconoscere in quel Figlio di uomo i tratti del Padre stesso. Lo sa fare l’uomo questo tipo di esercizio, ma quasi sempre al negativo. Non si accorsero nemmeno che prima di condividere quei cinque pani e due pesci, Lui aveva alzato gli occhi al cielo. Era quello l’indizio. Era quella la ragione del suo segnare quella giornata con una comunione grande, infinita. Lui guarda il cielo per indicare il Padre e dal cielo il Padre ha sempre benedetto il Figlio e sempre ci ha ricordato che dovevamo ascoltarlo come un maestro, amarlo come un fratello e seguirlo fino alla fine nel suo essere uomo.
Nella comunione e nella condivisione, Lui non interroga prima per sapere chi ne è degno. Questo è esercizio di morale. Roba da Legge insomma. Ora è l’invito fatto da Lui che rende degni. Quel provare a starsene seduti tranquilli e fiduciosi che qualcosa accadrà, rendeva quegli uomini, donne e bambini degni di ciò che stava per accadere. Avevano semplicemente obbedito ad un invito: «Fateli sedere».
È dopo aver mangiato che viene interpellata la nostra capacità di comprendere il segno. Siamo così abituati ad interrogarci se accostarci alla comunione e neppure ci siamo accorti che il discorso più serio avviene dopo che ebbero mangiato. La ricerca del senso segue l’amore che previene. È quello che con linguaggio da «addetti ai lavori» chiamano «grazia di Dio», quel suo modo inconfondibile di precederci sempre, di arrivare sempre per primo in materia di amore. Non è una sfida, non è roba per gelosi. È il suo modo di farci crescere, di interrogare la nostra libertà, e di suscitare o portarci alla fede.
Non basta pertanto il pane. Il companatico è questo suo spiegarci la vita, spiegarci come è fatto l’uomo: «Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati». Sì, siamo di quelli che Lo cercano più per bisogno che per amore. Siamo di quelli che Lo cercano più per paura che per fede.
Quel giorno alzò lo sguardo – quello sguardo fu il segno – prima di metterci un «per» in quella divisione. Contro ogni regola matematica: moltiplicò dividendo. «Per» compiere la volontà del Padre, Egli divideva quel pane «per» i fratelli. Difficile capire per uomini così calcolatori quali siamo diventati (o siamo da sempre). Abbiamo il ventre troppo sazio ed ora ci prende questa sonnolenza della fede. Abbiamo mangiato, abbiamo ottenuto quello che ci pareva essere davvero «necessario», e siamo sempre più vuoti di speranza, di ideali. Sì, un cibo mangiato solo per riempirsi la pancia, uno sguardo troppo ripiegato su se stessi, allenta in noi la ricerca. Ci sazia ma ci rende avidi, incapaci di condividere. Ciò che nutrì non fu la quantità di pane ingerito, ma la qualità di quell’incontro, il lievito della Sua presenza, il sale delle sue parole che davano sapore a ciò che poteva diventare improvvisamente sciocco, insipido, insignificante. Nel segno della moltiplicazione per un attimo li aveva voluti sollevare dall’angoscia di cacciare, dalla fatica di guadagnarsi il pane con il sudore della fronte, perché il lavoro dell’uomo – una volta tanto – fosse un’altra opera. «Datevi da fare non per il cibo che non dura…»
«Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?» La fatica dell’uomo è proprio quella di staccarsi da
«Scomparve la paura di dare, di donarsi, di morire per vivere»