…di tutte le cose visibili e invisibili
XXIII domenica del Tempo Ordinario
(Isaia 35,4-7 / salmo 33 / Giacomo 2,1-5 / Marco 7,31-37)
Che si legge sempre meno, ormai lo sappiamo. Noi, non altri. Leggiamo poco. Vince l’immagine sulla parola? (Ammesso e concesso che ci debba essere una tenzone tra immagine e parola). Ora si inizia ad affermare che di quel poco che leggiamo, comprendiamo pure poco. Incapaci di ripetere con parole nostre ciò che abbiamo appena letto. Abbiamo imparato a parlare, leggere e scrivere… ma i vocaboli sono sempre meno. Quelli capiti, quelli scelti per parlare, per scrivere. Proprio i vocaboli della nostra lingua italiana che da sempre è una delle lingue più complesse, con un vocabolario ricco di sfumature, con tutti i suoi sinonimi e contrari. Sto pensando di collocare in chiesa un dizionario della lingua italiana accanto al Libro della Parola di Dio. Che non ci succeda di leggere o ascoltare senza sapere nemmeno il significato dei vocaboli. Si da per presupposto che conosciamo, che sappiamo… anche con il Vangelo ci comportiamo così: «Già sentito! Sempre quella storia!». È tempo di rifarci un vocabolario, è tempo di impreziosire il nostro parlare con vocaboli importanti, preziosi. Alcuni li confondiamo quasi fossero sinonimi, ma in realtà sono ben diversi eppure così strettamente connessi tra loro. Così mi piacerebbe riflettere attorno al significato di due vocaboli: esistenza e Vita. Anche a partire dalle letture che abbiamo appena ascoltato. Sono queste letture a suggerirmi l’idea di questa riflessione e anche alcune cose che accadono nel quotidiano.
Quante volte sento dire che la Vita è pesante, è brutta, è difficile, è una noia. Stiamo attenti quando parliamo così, perché davvero non sappiamo ciò che stiamo dicendo. La Vita è essenza di Dio. Dio è Vita. Nel «Credo» che professiamo insieme diciamo: «Credo nello Spirito Santo che è Signore e dà la Vita» e non dimentichiamoci ancor prima che Gesù ha detto: «Io sono la Via, la Verità e la Vita». Se anche solo avessimo care queste poche parole, io mi dico che a partire da oggi, noi dovremmo smettere di bestemmiare la Vita. Dovremmo smettere di bestemmiare Dio con quelle bestemmie che sono forse più gravi di quelle dei muratori quando si pestano un dito con il martello.
Al massimo possiamo parlare della nostra esistenza quando vogliamo dirne la sua fatica, la sua pesantezza, le cose difficili che in essa ci accadono… ma appunto, è la nostra esistenza, quella di noi creature che in questo preciso spazio e in questo tempo che è la nostra epoca si trovano ad esistere. In questa esistenza che è la mia, che è la nostra, Dio soffia continuamente la sua Vita. Dio dà la vita, la aggiunge. Vi ricordate di Abramo e di Sara? Quei due poveri vecchietti sterili ai quali Dio fa recapitare per mano di tre uomini misteriosi, la notizia (buona) che l’anno seguente tra loro ci sarebbe stata una nuova creatura, Vita che si aggiunge alle due esistenze «maledette» di Abramo e Sara. Maledette perché non aver figli – non avere discendenti ai quali donare l’eredità – era da considerarsi una vera maledizione… .agli occhi della gente. Ma Dio che è Vita, trasforma la maledizione di ciò che la gente crede in una benedizione che porterà Vita. Sì, Dio aggiunge Vita. Se alle nostre esistenze aggiungiamo Dio noi riceviamo in dono la sua stessa Vita. Non una sola volta, quando nasciamo. Ogni giorno, ogni istante, ogni attimo è esistenza piena di Vita. E noi non siamo padroni della Vita. Siamo responsabili piuttosto delle nostre esistenze.
E allora? Come la mettiamo con la grande bestemmia? Perdonatemi, ma mi piace chiamarla così, per far sentire la pesantezza di certe affermazioni superficiali che diciamo come fosse espressione di fede. Sto parlando di quella affermazione per la quale troppo spesso sosteniamo che Dio deciderebbe Lui di toglierci la Vita. Insomma, Dio avrebbe deciso la nostra morte. Lui sa come e quando. Scusatemi tanto, ma fatico a sostenere queste affermazioni che molti pensano essere affermazioni di fede. No, grazie. Questa non è la mia fede, non è la nostra fede! Dio è Vita e in lui non c’è spazio per la morte. Dio è luce e in lui non ci sono tenebre. Sono tutte affermazioni contenute nei testi sacri che dovrebbero alimentare il nostro credere, e che poi, nei segni e nei gesti della liturgia continuamente ripetiamo con insistenza. A Pasqua la Luce. Ogni Messa il pane che sostiene il vivere perché se non mangi o non bevi, muori. I segni parlano chiaro, ma noi, incuranti, continuiamo ad attribuire a Dio anche l’ora della nostra morte. Una scusa, bella e grossa per esimerci dalla responsabilità di custodire il dono. Dio dona e aggiunge vita. La resurrezione – mistero centrale dell’annuncio cristiano – non potrebbe essere creduta così? Dio aggiunge Vita anche laddove gli uomini constatano la fine dell’esistere di una creatura.
Ciò detto possiamo allora addentrarci nel mistero delle nostre esistenze, queste sì tristemente segnate da fatica e travaglio. «Vanità delle vanità, tutto è vanità…Infatti, quale profitto viene all’uomo da tutta la sua fatica e dalle preoccupazioni del suo cuore, con cui si affanna sotto il sole? Tutti i suoi giorni non sono che dolori e fastidi penosi; neppure di notte il suo cuore riposa» (Qoelet 1,2. 2,21) Niente di male nel meditare sulla fatica dell’esistenza umana. Utile e necessario. Inutile perfino nasconderla. È interessante che nella Bibbia queste pagine di sapienza che attraversano i secoli e ci raggiungono come di estrema attualità (tanto da sembrarci perfino insegnamento divino, ma sono pensieri e considerazioni umanissime), sono fisicamente collocate dopo pagine e pagine di racconti di esistenze umane: Abramo, Mosé, Giacobbe ed Esau, Giuseppe e i suoi fratelli, Davide e Salomone… e quanti altri. Racconti di esistenze umane segnate dalla fatica del vivere e dai nostri stessi e identici problemi. Esistenze che faticano ad intercettare la Vita di Dio e che spesso cadono nell’idolatria affascinante delle cose materiali. Leggevamo nella seconda lettura: «Fratelli, se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra»
Questo confessano i racconti delle nostre esistenze: che siamo ammaliati dalle cose materiali, dalle ricchezze, dalla cupidigia, dal desiderio di possedere proprio ciò che ci manca e solo perché lo abbiamo visto in mano ad altri, lo desideriamo anche noi. Non desiderare le cose degli altri. Non desiderare lo schiavo, la moglie, il marito e neppure l’animale che lavora presso il tuo vicino. Non ricordo male, vero? C’era già un consiglio per la Vita… ma l’esistenza si consuma in Terra a rincorrere queste cose. «Non lascerò mio figlio senza il cellulare in un gruppo di amici o in una classe dove tutti ne sono dotati? Sarebbe il più sfortunato». Ecco intercettato uno dei nostri frequenti pensieri. Non è un giudizio. È un esempio concreto per dire come le cose hanno preso il sopravvento e la nostra preoccupazione è legata al nostro esistere alla luce di queste cose. Ma noi siamo ciò che possediamo? Non è che piuttosto le cose che abbiamo comprato ci hanno corrotti, ci hanno fatto perdere la bussola, l’orizzonte e il fine dell’esistenza?
Ho pregato con queste parole all’inizio dell’Eucarestia e – vi prego – impariamo ad ascoltare quella preghiera all’inizio della Messa perché ci da la tonalità della celebrazione, perché ci spiega cosa siamo venuti a chiedere a Dio, perché ci permette di accordarci insieme su cosa chiedere al Padre. Ascoltiamo ancora cosa il prete ha detto a nome di tutti:
O Dio, principio e fine di tutte le cose, che in Cristo tuo Figlio ci hai chiamati a possedere il regno, fa’ che operando con le nostre forze a sottomettere al terra, non ci lasciamo dominare dalla cupidigia e dall’egoismo, ma cerchiamo sempre chi che vale davanti a Te.
Non sorprendiamoci quindi se al termine dell’esistenza di qualcuno, spesso – troppo spesso anche ai nostri giorni – ci troviamo a fare i conti con questioni di eredità. Non è un tema parallelo. Non è un tema fuori luogo questo: è nel Vangelo ed è il Vangelo che ci chiede di meditarlo oggi. «In quel tempo, uno della folla disse a Gesù: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?». (Luca 12, 13)
L’eredità che spettava solo al primogenito…. l’eredità alla quale le donne – ingiustizia! – non potevano accedere salvo casi più unici che rari. L’eredità che ha costretto Agar e i figlio Ismael ad essere allontanati da Abramo affinché Isacco potesse diventare erede, pur essendo secondogenito. Eredità dell’imbroglio tra Giacobbe ed Esau… e l’elenco esemplificativo potrebbe continuare per pagine e pagine dell’Antico Testamento, attraversando il Vangelo, fino ad arrivare ai nostri giorni.
Ho trovato, nel libro del profeta Isaia queste parole che ci aiutano e ci ammoniscono: «Guai a voi, che aggiungete casa a casa e unite campo a campo, finché non vi sia più spazio, e così restate soli ad abitare nel paese» (Isaia 5,8). Grazie, profeta Isaia! Hai detto bene! Ci sta succedendo proprio questo, anche a noi, oggi. Come all’uomo della parabola: tutti intenti ad accumulare, ad assommare proprietà fino a ritrovarci a tu per tu con il nostro «mio» ma soli. Privi di un noi. E a perdita d’occhio non vedi più un fratello tante sono le proprietà! E così rischiamo di dover constatare «la morte del prossimo», come afferma bene Luigi Zoja nel suo omonimo libro. Circondati da cose, non vediamo più la fraternità, questo Bene invisibile che tanto Bene potrebbe fare ancora oggi al nostro mondo visibile.
Nella questione di eredità tra i due fratelli del Vangelo odierno, Gesù – che grande! – si smarca. Si chiama fuori. Egli non fa l’avvocato o il notaio. Rimanda a loro la responsabilità di una scelta. Unico avvertimento – quasi una vocazione – «O uomo!». Lo chiama ancora uomo. Come chiamava «amico» anche Giuda dopo il tradimento. Gesù richiama alla sua vera natura quella creatura così bramosa di possedere le cose che gli spettavano. Sì, nell’uso delle cose c’è nascosta per noi una chiamata: a lasciarci catturare e possedere da esse o la chiamata a decidere di orientare altrove le nostre ricerche. Quante volte diciamo di alcune persone che sono troppo «materialiste». Credo che dal dopoguerra in poi, ci siamo caduti tutti nella trappola delle cose. Del non voler far mancare nulla. Dell’accumulare per lasciare in eredità. Intendiamoci: non è vietato farlo ma non meravigliamoci poi – con l’aria degli ingenui – di vedere uomini che rinunciano al dono della fraternità solo per possedere cose materiali.
Siamo caduti nella trappola di non farci mancare nulla e del non farlo mancare nemmeno ai figli. È tempo, il nostro, di occuparci seriamente a far intuire alle nostre esistenze e a quelle dei più piccoli che ci sono cose invisibili da cercare e non solo cose materiali, visibili. Scusate: altrimenti cosa ci siamo venuti a fare all’Eucarestia? Io non so per quali percorsi, per quali vicende, per quali labirinti e gimcane avete dovuto passare questa settimana…. ma oggi sono felice che avete trovato la direzione e la strada che vi ha riportati qui. Qui, insieme, stiamo cercano di vedere l’invisibile. Nulla a che vedere con il dopo morte. Perché anche questo pensiero erroneo continuiamo a portare avanti: un mondo visibile qui e un mondo invisibile dopo che siamo trapassati. Ma voi vedete l’ossigeno che stiamo respirando? E voi sapete cosa succede dentro la persona che vi è seduta accanto? Ecco… l’Invisibile è già qui e Dio lo ha creato accanto alle cose visibili. A noi chiede di «alzare le antenne» e di provare a sintonizzarci su altre frequenze. Storditi dal visibile, l’Invisibile non ci interessa più, o pochissimo. Ma dovrebbe essere davvero il contrario. Soprattutto oggi, in questo tempo. Potessimo accordarci sull’urgenza di intercettare l’Invisibile agli occhi. Ricordate «Il Piccolo Principe»? Chi non conosce l’aforisma di Antoine de Saint-Exupery? L’essenziale è Invisibile agli occhi.
Il superfluo, riempie e stordisce le nostre esistenze rendendoci così soli ed infelici. Nemmeno il lume della condivisione pare parlare più al nostro cuore. Dio aggiunga Vita a queste nostre esistenze. E noi, intercettiamo ciò che viene da Dio. Chiediamogli nella nostra preghiera quotidiana che ci dia La Vita. L’Unica Vita. Lui, unico sommo Bene. Amen.