Dopo l’intimo tormento vedrà la luce
XXXIII domenica del Tempo Ordinario (B)
Dn 12,1-3 / Sal 15 / Eb 10,11-14.18 /Mc 13,24-32
La sofferenza innocente interroga(va?) e chi dalla sofferenza si lascia interrogare, finisce probabilmente per chiamare in causa anche Dio. Si cercano le ragioni di ciò che non si può spiegare. O forse si cercano motivazioni e speranze per sostenere chi attraversa prove. Anche il profeta Isaia cerca queste ragioni davanti alla sofferenza del servo del Signore. Immediato per noi il riferimento a Gesù stesso, ma se pensiamo che Isaia scrive almeno sei secoli prima della nascita di Gesù, allora la domanda si fa più intrigante. Il profeta non parla e non scrive per annunciare cose future, ma parla per comunicare con i suoi contemporanei, cercando di liberare la speranza e suscitare l’attesa di un tempo migliore nonostante tutte le sofferenze.
Dice Isaia: «Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori…» (53,10). Cosa dice Isaia? Come suonano e come comprendiamo queste parole? Lontano da noi l’idea perfida di un Dio che vedrebbe nelle sofferenze umane il giusto prezzo da pagare per un qualche male commesso. Dio – che è Amore – non conosce di certo questo sentimento. Il linguaggio che Isaia sta utilizzando è quello ben noto delle pratiche religiose di cui il popolo in esilio aveva nostalgia non avendo più luogo dove presentare sacrifici a Dio. Si parlava – come recitano diversi salmi – di sacrifici e olocausti che dovevano piacere a Dio, come offerte a Lui gradite. Ora Isaia non può più parlare di sacrifici al Tempio ma può utilizzare lo stesso linguaggio per cercare di farsi capire ed accompagnare i suoi uditori ad una nuova comprensione di ciò che a Dio può piacere.
Non certo i sacrifici, né gli olocausti e nemmeno la sofferenza degli esseri umani o delle creature; ciò che al Signore può piacere è piuttosto il modo di stare nella prova e di attraversare le sofferenze. Non la sofferenza in sé ma l’attitudine del credente che dopo il suo intimo tormento vedrà la luce. La luce attende colui che attraversa la sofferenza in compagnia di Dio, con il pensiero rivolto a questo Dio-Amore che poco a poco si farà conoscere come quando al mattino il sole viene ad inondare dei suoi raggi ciò che nella notte appare solo come spaventoso. Ora dunque potremmo pensare a Gesù Cristo che ben possiamo identificare come il servo sofferente. Animato dalla certezza che la luce splende nelle tenebre e che le tenebre non la potranno vincere (Gv1,5), il suo modo di attraversare la notte della croce è ciò che piace a Dio. Ed è certo un sacrificio, ma più efficace rispetto a tutti i sacrifici che continuamente gli esseri umani devono offrire a Dio per convincersi della Sua bontà. Solo il dono di sé che Gesù stesso ha fatto può liberare l’uomo dalla paura di un Dio che attende ancora il prezzo di un riscatto.
Per questo accanto ad Isaia, oggi leggiamo anche un passaggio della lettera agli Ebrei. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia. Un chiaro invito ad avvicinarsi a Gesù, riconoscendolo come salvatore, senza rifiutarlo per quelle obiezioni che venivano mosse all’ipotesi che Egli potesse veramente essere il Messia. È proprio la tesi sostenuta nella lettera agli Ebrei: in questo scritto del Nuovo Testamento si prova il sacerdozio di Cristo e si porta avanti l’idea che solo Lui possa essere il sommo sacerdote grande (Ebr 4,14). L’obiezione numero uno era legata al fatto che Gesù non era discendente di Levi (la famiglia dei sacerdoti del Tempio) ma della famiglia di Davide. Quindi re avrebbe potuto esserlo ma non di certo sommo sacerdote. Considerata poi la morte in croce – la morte dei maledetti – come riconoscere il suo legame con Dio o la sua regalità?
Che fosse il Cristo i discepoli lo credevano. Pietro lo disse ad alta voce, quasi fosse il porta-parola di quel gruppo di discepoli che ancora cercava la propria identità e le ragioni di quell’insolita sequela. E sebbene lo avessero riconosciuto come Cristo e scelto come Messia, di certo faticavano a comprenderne quelle affermazioni che indicavano la direzione del suo cammino, quel suo voler andare dritto, ad ogni costo, nel più totale dono di sé.
Se torniamo alle affermazioni iniziali di questo scritto, se torniamo cioè alla «questione sofferenza» che tanto tormenta l’essere umano di ogni epoca, possiamo dire che nemmeno leggere il Vangelo risolve la questione. Tuttavia è Gesù stesso (che è il Vangelo, che è la buona notizia di Dio tra gli orrori umani o la luce nelle tenebre) che ci accompagna nel comprendere meglio certe cose e proprio a partire dal suo essere presente accanto ai suoi discepoli. Sono proprio due dei suoi discepoli a fornirgli l’occasione per aprire la loro mente e il loro cuore su una questione decisiva. Giovanni e Giacomo, i figli di Zebedeo, chiedono due posti d’onore accanto al trono del loro Signore. Una questione di potere, di prestigio, di privilegio. Subito Gesù spiega ai suoi discepoli che nel suo Regno non è questione di potere ma di servire. Il potere nelle mani degli uomini si deforma presto in comando che opprime. Il servizio nelle mani di Gesù libera l’uomo dal diventare vittima del potere. Entrando nel mondo, Gesù ha introdotto un altro principio per gestire le nostre relazioni fondato non più sulla forza del potere ma sull’umiltà del servire.
L’essere umano pensa ancora di fare evolvere la società umana fondandola su rapporti di forza. Come spiegare tanta competitività in diversi ambiti? Tutto questo non corrisponde affatto a Gesù e al suo Vangelo: «Tra voi però non è cosi – dice – ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti».
Dal Vangelo secondo Marco
(10,35-45)
In quel tempo, si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra».
Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».
Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».
Dio d’Amore
la Tua pace è in noi
risonanza del gesto di Gesù.
Egli ha inaugurato tra noi
un nuovo modo di essere,
gli uni con gli altri,
un altro modo di relazione tra i popoli.
Ha rifiutato ogni potere che non sia dono di Sé,
ha piegato il suo corpo al servizio delle sue sorelle e dei suoi fratelli,
ha fatto della sua vita un Pane spezzato per tutti.
Preghiera del Carmelo della Pace di Mazille
Signore, Tu mi scruti e mi conosci…
Non darmi ciò che ti chiedo, ma ciò di cui ho bisogno…
Chi non ha provato sofferenza o non ne proverà? Nessuno è escluso.
Fa parte della vita anche se sembra sempre un insulto a noi “brave persone” che pensiamo di non doverla meritare quando ci accade.
È solo il modo in cui la affronti che fa la differenza.
Personalmente mi ha sempre sostenuto la grande virtù della Speranza che mi ha aiutato ad affrontare non pochi momenti pesanti, sapendo che dopo i momenti bui arriva sempre un bel raggio di sole a riportare la pace.
E la preghiera, in verità un po’ disordinata la mia, fatta più di colloqui con il Padre, tirando la giacchetta anche a Gesù, perché venissero in soccorso per darmi la forza di affrontare il tutto.
Ma anche così, per quello che oggi sta succedendo, mi sale un grido: “Fino a quando Padre permetterai che tanti tuoi figli debbano soffrire a causa di altri uomini trasformatisi in lupi feroci?”
Alla luce di questo il sacrificio di Gesù sembra più insensato che mai se non fosse nella promessa di “cieli e tarra nuova”.
Ecco la Speranza che torna in azione….
“…Fa’ che impariamo, Signore, da Te,
che il più grande è chi più sa servire,
chi s’abbassa e chi si sa piegare,
perché grande è soltanto l’amore…”
(Servire è regnare).
Insegnaci l’arte dell’Amore, Signore,
perché impariamo giorno dopo giorno
ad amarci gli uni gli altri
come Tu ci hai amato.
Questa è la vera e sola speranza
per un mondo migliore.
Ogni esperienza di sofferenza umana causa un dolore. Secondo me, stando anche alla mia esperienza, il dolore può causare, pur nella sua drammaticità, un continuo lamento oppure può essere offerto a Colui che ha pianto nell’orto degli Ulivi il venerdì santo: a Colui che ha preso su di sé ogni nostro dolore; a Colui le cui lacrime si avvicinano a quelle di ogni uomo toccato dal dolore, ad ogni uomo che soffre intendo. Credo di poter affermare che solo il dolore offerto consapevolmente e veramente possa cambiare il mondo in un mondo migliore, anche se ogni essere umano non vorrebbe mai provare la sofferenza, non vorrebbe mai passare attraverso quella porta così stretta ed opprimente. Solo attraverso un atto di consapevole offerta il dolore può essere vissuto e diventare causa di redenzione.