Dove finisce il mondo?
Ascensione del Signore (A)
(At 1,1-11 / Sal 46 / Ef 1,17-23 / Mt 28,16-20)
Il calendario liturgico in Svizzera (come in molti altri paesi d’Europa) celebra oggi, 18 maggio 2023, l’Ascensione del Signore.
In Italia questa solennità è celebrata domenica prossima.
Dio del Signore nostro Gesù Cristo,
Padre della gloria,
donaci uno spirito di sapienza e di rivelazione
per una profonda conoscenza di Te.
Illumini gli occhi del nostro cuore
per farci comprendere a quale speranza ci hai chiamati,
quale tesoro di gloria racchiude la tua eredità fra i santi
e qual è la straordinaria grandezza della tua potenza
verso di noi, che crediamo,
secondo l’efficacia della tua forza e del tuo vigore.
(dalla lettera agli Efesini)
Dal Vangelo secondo Matteo
(28,16-20)
In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato.
Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».
Il luogo per questo appuntamento odierno fu dato fin dal mattino di Pasqua. L’angelo disse alle donne che erano andate alla tomba: «Presto, andate a dire ai suoi discepoli: «È risorto dai morti, ed ecco, vi precede in Galilea; là lo vedrete» (Mt 28,5-7). Di lì a poco – e proprio pochi versetti dopo – è il risorto stesso a dire: «Non temete; andate ad annunciare ai miei fratelli che vadano in Galilea: là mi vedranno» (Mt28,10). Pochi versetti ancora e si giunge alla conclusione del Vangelo di Matteo che ci accompagna oggi in questa solennità dell’Ascensione: gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato.
Un monte non necessariamente da identificare perché solo la parola «monte» basterebbe ad evocare un’infinità di ricordi, un serie di biblici appuntamenti dati a uomini divenuti grandi per quel loro desiderio di incontrare Dio o semplicemente desiderosi di dare uno sguardo al mondo da un punto di vista differente. Un monte dunque il luogo dove Dio si rivelò à Mosé; un monte dove lo cercò il profeta Elia; un monte dove davanti ad alcuni discepoli Gesù stesso si trasfigurò davanti ai loro occhi, mentre Gesù stesso è visto dialogare con la Legge e i Profeti, fino a che dalla nube si udì la voce del Padre che diceva chiaramente: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo» (Mt 17,5).
La tradizione tuttavia colloca questo luogo dell’ascensione di Gesù non proprio in Galilea, ma semplicemente su quello stesso monte degli Ulivi, ai piedi del quale s’era consumata in agonia l’ultima notte terrena di Gesù. Ci si accorgerà dunque subito che se dobbiamo parlare dell’ascensione le concordanze non ci aiuteranno molto. Anche i testi neotestamentari differiscono: Matteo non menziona nemmeno che Gesù sia salito in cielo. Diversamente e più ampiamente ne parla Luca negli Atti degli Apostoli (prima lettura). A poco serve comunque tentare concordanze bibliche e geografiche per cercare la precisione di un luogo fisico se il Risorto stesso ha promesso di essere con noi tutti i giorni fino alla fine del mondo. È vero tuttavia che un luogo preciso – quello consegnatoci dalla tradizione di numerosissimi pellegrini che nei secoli sono tornati come i primi discepoli sugli stessi luoghi dove Gesù ha vissuto – può servire per visualizzare e ricordare chiaramente un fatto che va compreso nella fede e nella luce della Pasqua stessa.
Una piccola edicola ottagonale dentro quello che ora sembra soltanto un grande cortile è questo luogo della tradizione. Le mura all’intorno inglobano i resti di una basilica costruita proprio lì. Uno spazio dentro il quale occorre esercitare un po’ la fantasia immaginandolo proprio al contrario di come appare oggi. La cupola che sovrasta il piccolo santuario ottagonale in origine non c’era e quindi la sensazione doveva essere proprio particolare: si entrava dentro uno spazio sacro coperto per poi accedere al suo cuore, nella piccola edicola ottagonale priva di alcuna copertura. Sopra la testa dunque solo il cielo, questo spazio infinito, quella casa del Padre nella quale – secondo quanto disse Gesù stesso – vi sono molte dimore (Gv 16,2).
È il punto più alto del monte degli Ulivi. Sotto, la strada scende in picchiata. Lì sotto l’agonia, l’arresto, la passione… il luogo dove gli uomini hanno esercitato uno strano potere: eliminare dalla terra dei viventi Colui che amava chiamarsi «figlio dell’uomo», lasciandolo sospeso tra terra e cielo, come a dirgli che nessuno lo voleva, né l’uomo in terra, né Dio in cielo. Sospeso, a mezz’aria.
Amava attribuirsi il titolo di «Figlio dell’uomo», soprattutto quando dovette annunciare la sua passione, morte e resurrezione o rivelare discretamente la sua messianicità, la sua signoria perfino sul sabato. Un titolo molto ricorrente nei Salmi, nei libri dei Profeti, nelle Sacre Scritture che anche Gesù – da buon ebreo – conosceva. Con questo titolo rivelava già il suo legame col Padre, perché è con questo appellativo che il Signore si rivolgeva direttamente ai suoi profeti e al suo Messia.
Un Messia – Gesù – difficilmente accettato e compreso. Un Messia frainteso fino alla fine. Un Messia che non poteva certo finire sulla croce privo di ogni potere perché proprio attorno al Messia convergevano piuttosto tutte le speranze, tutte le attese di salvezza, una figura d’un rilevante potere capace di ristabilire le sorti della storia. Cè questo tema del «potere» in tutte le letture di oggi. E come dunque chiamare Messia, quel figlio dell’uomo che finisce sulla croce i suoi giorni terreni? Il crocefisso – per chi del potere ha un’idea distorta, per chi crede di esercitarlo eliminando e togliendo di mezzo – rimarrà sempre un’immagine di debolezza e di sconfitta. Ma noi crediamo, dal mattino di Pasqua, che la morte non può più avere l’ultima parola. E da quell’ultima cena nel Cenacolo, anche la che nemmeno gli uomini hanno
Resurrezione è dunque la Parola nuova che il Padre pronuncia, restituendo al Figlio dell’uomo questo potere d’essere sempre con i suoi. Si chiuderà proprio così il Vangelo di Matteo: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».
Quelle che Matteo consegna a noi come ultime parole di di Gesù sulla terra, sono invece le prime parole che la comunità dei credenti, che già si riconosce quale corpo di Cristo, pronuncerà più volte da quel giorno per esercitarsi nell’arte di accogliere nuovi discepoli, nuovi figli di Dio che troveranno posto nella casa del Padre. Dietro a Cristo troveranno la via per la vita. Se in cielo – nella casa del Padre – ci sono molte dimore, quel Corpo di Cristo che è la Chiesa non potrà che rallegrarsi di rispecchiare in terra questa più ampia accoglienza. Di questa accoglienza la nostra vita quotidiana e terrena resta il luogo concreto se davvero preghiamo nell’attesa che venga il Suo regno, un regno che Gesù ha sempre dichiarato essere già in mezzo a noi.
Iddio, che è dappertutto,
non ci lascia mai.
Eppure talvolta sembra che sia presente
e talvolta assente.
Se non lo conosciamo bene,
non ci rendiamo conto
che può esserci maggiormente presente
quando è assente di quando è presente.
[…] Nell’assenza che santifica
Dio vuota l’anima di ogni immagine
che possa diventare un idolo
e di ogni preoccupazione
che potrebbe porsi tra noi e il Suo Volto.
(Thomas Merton)
Quando muore una persona cara, ai bambini siamo soliti dire che è andata in cielo. E la sera guardiamo insieme le stelle…
Crescendo sentiranno che chi non è più con noi è dentro di noi. Per sempre.
Ovvero “… tutti i giorni e fino alla fine del mondo”, come ci è stato promesso dalla Speranza che è in noi.
È capitato che, poco dopo aver letto queste riflessioni, incappassi in questo brano:
“Noi nasciamo accesi, i bambini sono accesi, poi i colpi della vita sembrano spegnerci. Ma abbiamo una sorgente di fuoco cui attingere, un fiume di fuoco che brucia le cose morte, e le fa risorgere in luce e calore. Che si posa su ciascuno e ogni lingua di fuoco accende un cuore, sposa una libertà, consacra una individualità, un carisma unico. La chiesa allora diventa invenzione, poesia creatrice, ricerca. Lo Spirito è creatore, e vuole creatori.” (Ermes Ronchi, “Il cuore semplice della fede”)
Auguro di cuore a noi tutti, fratelli e sorelle di buona volontà, di lasciarci ispirare dallo Spirito e stimolare dalla sua vivificante creatività perché possiamo lasciarci “tornare alla vita” e “restare aggiornati” nella fede, trovando sempre modi nuovi per agirla autenticamente nella nostra quotidianità. Perché possiamo autenticamente essere come zampilli di un’unica sorgente d’acqua viva e contribuire ad irrigare tutte le aridità che incontriamo lungo il nostro cammino di vita.