È cosa (molto) buona e giusta che Lui ci guardi
Sabato – terza settimana di Quaresima
(Os 6,1-6 / Sal 50 / Lc 18,9-14)
Per com’è scritto il vangelo di Luca (siamo al capitolo 18) possiamo dire che non siamo lontani dal racconto della passione, morte e resurrezione. Davanti ad una piccola parabola come quella che ascoltiamo oggi, ma non per questo meno importante, è sempre bene dare uno sguardo appena appena più ampio, per capire in quale contesto collocarci. Di lì a poco Gesù avrebbe annunciato per l’ultima volta la ragione del suo andare verso Gerusalemme.
Ma intanto sta ancora consegnando alcuni piccoli insegnamenti relativi alla preghiera, quello spazio in cui l’uomo si deve collocare quando si accorge di non essere ancora entrato nel regno di Dio. Gesù stesso è garanzia che il regno di Dio è già in mezzo a noi. Lo disse apertamente all’inizio del suo ministero. Ad alcuni, proprio come meditavamo nel vangelo di ieri, aveva addirittura assicurato di non essere troppo lontano da questo regno di Dio. Tuttavia Gesù sembra sottintendere che l’ingresso in questo regno ora accessibile, avviene anche per una particolare disposizione umana, sulla quale – ecco il senso del nostro credere – occorre costantemente lavorare.
Il regno di Dio è dunque già presente nel momento in cui incontriamo Gesù. Io immagino che anche aprendo e meditando il Vangelo si spalanca davanti ai nostri occhi questa possibilità di essere già nel regno di Dio. Entrarci non è cosa semplice, tuttavia non impossibile. Cosa rende difficile l’accesso al regno? Cosa manca ancora?
Siamo sempre lì sulla soglia del regno di Dio a credere che servono tutte le nostre buone opere, tutta una serie di cose che ci fanno sentire apposto, in ordine, meritevoli e giusti (ed è l’atteggiamento del fariseo così efficacemente dipinto nella parabola). E si può pure andare in confusione quando poi leggiamo nelle lettere di san Paolo che la fede senza le opere non è proprio fede. Nessuno mette in dubbio la bontà di opere buone, fatte con fede e nella fiducia. Ci sono cose che soprattutto oggi si fanno proprio per fede. Esempio? Nell’epoca in cui si è subito indagati per qualche reato… è difficile e degno di fede esporsi a fare anzitutto del bene senza pensare che le cose potrebbero andare diversamente e rischiare una denuncia. I nostri tempi a volte sembrano raccontare proprio questo.
Come dunque entrare nel regno di Dio? Non con l’intima presunzione di potervi entrare per merito delle buone opere o perché Dio stesso sarebbe in credito con chi le avesse compiute. E neppure per confronto diretto con gli altri. E qui c’è davvero molto, moltissimo da lavorare! Già si diceva nelle riflessioni dei giorni precedenti che queste (il)logiche contrapposizioni contemporanee non ci aiutano affatto. Non solo non ci aiutano a vivere bene qui tra noi, ma non ci aiutano nemmeno per poter accedere al regno di Dio. Non è decretando e giudicando qualcuno peggiore di sé che possiamo sentirci più avanti. C’è veramente da smantellare una competitività che s’è incredibilmente esasperata. Ovunque e a tutti i livelli. Anche nella Chiesa, certo!
Gesù ci invita a guardare per un attimo l’atteggiamento del pubblicano e ci chiede di ascoltare la sua preghiera decisamente più essenziale. Una preghiera che sembra proprio corrispondere a quel «non sprecate parole come fanno i pagani i quali credono di essere ascoltati a forza di parole» (Mt 6,7). In un certo senso, il fariseo di parole ne aveva già sprecate abbastanza facendo un lungo elenco di ciò che egli non è e di tutto ciò che egli presuntuosamente fa. Così si sprecano le parole della preghiera: dicendo ciò che non siamo e avanzando pretese per ciò che eventualmente avessimo fatto.
Quel pugno che batte sul petto libera da dentro la preghiera più vera: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». Non è un colpo fastidioso di tosse, non è qualcosa che c’è andato di traverso perché non riusciamo a digerirla proprio questa storia che siamo cattivi e peccatori. Battersi il petto è Cristo stesso che sta alla porta e bussa. Egli è venuto per i peccatori. Nella preghiera ci è data la possibilità della verità, della sincerità, di non giocare al confronto, di non andare per esclusione nel dire ciò che non siamo, ma nel dire essenzialmente ciò che siamo.
Qualcuno potrebbe obiettare che se ci vediamo solo come peccatori, potremmo rischiare di perdere di vista quello sguardo positivo che Dio stesso ha sull’uomo nel momento in cui Dio stesso, creandolo e contemplandolo «vide che era cosa molto buona» (Ge 1,31). Dove il molto sembra dire una predilezione rispetto al buono di tutte le altre opere. Quindi se ci consideriamo troppo peccatori, ci sembra perfino di tradire quello sguardo, quella parola che sta a principio. Quel «molto buono» riferito all’uomo che di lì a poco si sarebbe scoperto nudo perché peccatore, non capace di ascolto e di obbedienza, capace piuttosto di accusare sempre l’altro come causa dei suoi errori; ecco, quel «molto buono» riferito all’uomo è un aggettivo superlativo da riferire all’uomo solo se è Dio a guardarlo e ad esprimere quella bontà, perché solo Dio è giusto e l’unico buono è Lui. È molto buono l’uomo quando si lascia guardare da colui che è molto misericordioso. Non è primato o precedenza umana. È sguardo più attendo di Dio. Tra tutte le creature, Dio “capisce al volo” che l’uomo sarebbe stata quella che più gli avrebbe dato filo da torcere, che avrebbe perfino osato sfidarLo e metterLo alla prova, che avrebbe potuto vivere anche come se Dio non esistesse, tanto da ucciderne il Figlio come a cancellarne dalla terra il ricordo. È sull’uomo che Dio posa maggiormente il suo sguardo giusto e compassionevole. Egli sta alla porta del nostro cuore e bussa per potervi entrare e far festa con i peccatori. Non incontreremo Dio per merito o per vanto. Lo incontreremo solo riconoscendo in noi quel peccatore che tuttavia non dispera ma sa di poter stare davanti al suo Dio perché proprio il Padre ha deciso di mandare nel mondo suo Figlio non per condannarci, ma perché abbiamo la vita in abbondanza. E la vita, la grazia – parola di San Paolo – sovrabbondano proprio dove ha abbondato il peccato.
Di Maria noi cantiamo sempre l’umiltà della serva del Signore. Va detto però che a Maria non sarà mai venuto in mente di mettersi in preghiera confrontandosi con tutte le altre donne o le altre madri. L’umiltà della serva del Signore sta proprio nel fatto che Maria, un giorno, decise di lasciarsi guardare da quegli occhi di misericordia che riempiono di grazia una creatura come l’essere umano. E così divenne madre del Figlio di Dio. Così accolse nel suo grembo Colui che disse: «non sono i sani che hanno bisogno del medico. Non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori». Beati quelli che ascoltano queste parole, beati gli invitati alla cena dell’Agnello… perché hanno accolto questa rivelazione. Sono polvere, sono peccatori ma vorrei aprire la porta di casa a Colui che vuole sostare da me, come da tutti, per salvarci. Gli altri giudicheranno poco di buono perfino Gesù, e lo avrebbero anche fatto fuori, scartato, eliminato. Gesù viene da noi! E di lì a poco, qualche versetto dopo, l’evangelista Luca racconterà non più una piccola parabola ma l’incontro di Gesù con Zaccheo.
Crediamo nello Spirito Santo,
Dio dell’amore e della speranza,
futuro promesso dei nostri cammini.
Sii tu stesso in noi desiderio, dolcezza e vita,
e fa’ che questa esistenza, segnata e santificata da Te,
sia spesa a servizio degli uomini
fino al giorno in cui la potenza di Pasqua
avrà raggiunto e trasformato ogni cuore.
Amen.
Ketil Bjørnstad & David Darling, Pavane, Epigraphs
Dal Vangelo secondo Luca (18, 9-14)
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.
Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
Fammi grazia, o Dio,
secondo la tua costante tenerezza.
Nel grande amore delle tue viscere,
nella tua capacità di immedesimarti nella mia situazione,
cancella la mia ribellione al tuo ordine.
Lavami dalla mia disarmonia;
tirami fuori dal mio smarrimento
in un progetto alternativo.
Oggi ti rallegri di me, mi accogli così come sono.
Rivelati a me perché ti possa conoscere,
fammi accettare gli altri come tu accetti me.
Dammi la forza
e suggerisci cosa posso fare per il loro bene
e per cambiarli in bene.
Tu sai, mi guardi per interrogarmi,
i metti in discussione e io ascolto il tuo rimprovero.
Riconosco la mia colpa,
il mio peccato mi sta sempre davanti.
In quello che ho fatto agli altri e alla natura,
contro di te, contro te solo ho peccato.
Nell’analizzare le mie responsabilità
non mi deprimo inutilmente ma dialogo con te.
Come è stato possibile fare
quello che è male ai tuoi occhi, al tuo amore?
Eppure l’ho fatto!
Quotidianamente mi chiedo che cosa mi pesa
e mi rende inquieto,
come avrei dovuto diversamente comportarmi.
Se tu fossi solo giudice, per me non ci sarebbe scampo,
ma tu sei parte ferita e il tuo giudizio è il perdono.
Il mio dolore nasce da questa sproporzione:
come ho potuto offendere
chi ancora mi contraccambia con la sua amicizia?
E quante volte ti offendo,
trascurando un rapporto con gli altri!
Anch’io, quando mi ritengo leso,
voglio ricambiare con il perdono e l’amicizia.
(Carlo Maria Martini, libera parafrasi del salmo 50)
Il pubblicano che va al Tempio per pregare, mi insegna la cosa più importante: essere umile come Gesù che con il sacrificio della croce, me lo ha dimostrato. Ricordo un’affermazione del cardinal Martini: “Ogni volta che mi metto in preghiera, mi metto da povero…”. Signore non so pregare, non so da che parte cominciare, ma so che il Tuo Spirito mi guiderà. Oggi pregando questo passo di Vangelo, mi sono sentita attratta dalla modalità del pubblicano; attratta, ma non ancora arrivata.
Riconoscersi peccatori amati, ammettere quali pochi meriti possiamo vantare agli occhi degli uomini ma ancor più agli occhi di Colui che ha dato tutto per noi, ha creduto e crede in noi più di quanto noi crediamo in Lui ci permetterà di avere un dialogo sincero, di presentarci semplicemente per quel che siamo e per come siamo. Lui ci ama per la nostra imperfezione perché è solo su quella che la Sua grazia può agire. Pensavo ad un termine per identificare l’atteggiamento del fariseo e con mia piacevole sorpresa ho scoperto che commiserare gli altri può voler dire considerare con pietà e compassione gli altri e non solo con sprezzante superiorità o compatimento. Che il Signore ci insegni ad avere sempre più compassione e tenerezza gli uni per gli altri, la stessa che da sempre Lui ha provato e prova per noi.
Le parabole di Gesù rappresentano sempre le nostre storie quotidiane e ci interrogano nel profondo: con quale dei due atteggiamenti ci identifichiamo?
Non conquista l’amore di Dio chi vuol farsi bello di fronte al Padre parlandogli male dell’altro suo figlio… Il cuore di Dio, che è padre e madre, ama tutti i suoi figli indistintamente. E ce l’ha dimostrato!