E disse: “No…”
(Ml 3,1-4.23-24 / Sal 24 / Lc 1,57-66)
Nove mesi di attesa e una promessa a portata di mano: un grembo detto sterile che cresce a vista d’occhio. La salvezza è ora nettamente più vicina. Nel giorno in cui Maria, la madre del Signore, fece visita alla cugina Elisabetta, quel giorno il bambino le sussultò in grembo. A quel tempo, mancavano ancora tre mesi a che il figlio di Zaccaria ed Elisabetta vedesse la luce. Quel bambino, divenuto uomo, si distinguerà per un’austerità di vita che pare contrastare perfino con quella preventiva gioia. Tre mesi dopo quel sussulto di gioia, alla nascita del bambino è la stessa gioia che si diffonde e rimbalza. Vicini e parenti si rallegrano perché hanno visto manifestarsi in Elisabetta la misericordia del Signore. Lui che danzò di gioia nel grembo della madre, verrà ucciso a causa di un’altra promessa: quella di Erode compiaciuto per la danza di una ragazza. Ma qui entriamo nelle cose che, stando al racconto di oggi, ancora non ci si immagina nemmeno. Anzi! Oggi c’è solo la domanda legata a quel bambino: «Che sarà mai?».
Furono nove mesi di attesa anche per Zaccaria, il padre. Fu forse più partecipe di quell’attesa per il segno della sua incredulità che portava su di sé: rimase muto e sordo per non aver creduto alle parole dell’angelo. Una gestazione dell’udito e della parola di un uomo maturo, per il sacerdote del Tempio abituato ad interloquire tra popolo e Dio. Paradossalmente il segno – il mutismo del padre – diventa più eloquente di tante parole: non credere all’adempimento delle promesse di Dio rende muti, afoni, incapaci di comunicare. E qui c’è un buon punto interrogativo per l’uomo di ogni epoca e di ogni stagione. Sembriamo sempre più afoni, muti e sordi.
Per lo scritto biblico c’è sempre una promessa a tenere in movimento la vita. Incise su rotoli inizialmente, stampate su carta e ora anche disponibili sul web, ci sono le promesse di Dio. E se a promettere è Dio stesso, potremmo essere ancor più sicuri del felice esito. Ma l’uomo continua ancora a restare incredulo e alla lunga omette di sperare nelle promesse di Dio e omette il soccorso alla vita. In realtà la promessa di Dio è proprio espressione del suo soccorso in atto: Zaccaria ed Elisabetta nel diventare genitori sentono di essere stati visitati, soccorsi, raggiunti da Dio con una precisione e un dettaglio incredibili.
È la madre, Elisabetta, che da una svolta. Per effetto di un “no” determinato. Lei che ha già provato nel suo corpo che le cose non vanno solo per natura o per tradizione. La sua natura le negava una maternità. La tradizione sostenuta da parenti e da vicini di casa, le impediva di dare un nome nuovo a quel figlio. Non voleva di certo che quel figlio fosse lì a ricordarle di quei nove mesi in compagnia di un uomo che non sapeva più parlare. Quel figlio non dovrà ricordare l’incredulità del padre ma semplicemente la fedele promessa di Dio ora avveratasi per loro. Quella promessa è ora già incarnata per Elisabetta e Zaccaria. La tengono tra le braccia.
Circoncidetelo pure quel bambino. Deve far parte di un popolo, il popolo destinatario delle promesse di Dio. Ma non è quel segno fatto da mano d’uomo che dirà di lui. È la mano stessa del Signore che guiderà i passi di quel neonato. Come fu dai tempi di Abramo e di Mosé. A fronte del più celebre «Sì» di Maria, oggi possiamo pure benedire quel «No!» di Elisabetta. Un no che rompe con tradizione ormai svuotate di senso, ma che riempie di significato il domani, anche il nostro. Benedetto quell’istante di perfetta intesa tra uomo e donna, tra la madre, il padre… e Dio stesso. Detto a voce dalla madre e messo per iscritto dal padre. Si chiamerà Giovanni, dono di Dio.
Una domanda sul vivo: a cosa o a chi queste madri e questi padri di oggi devono dire «no!» perché la mano del Signore sia ancora sui loro figli?
Per ascoltare l’antifona di questo giorno, clicca sulla freccia bianca nella barra sottostante
O Emmanuel, nostro re e legislatore,
speranza delle genti, e loro Salvatore:
vieni e salvaci, Signore, nostro Dio.
O Emmanuel, Rex et legifer noster,
expectatio gentium, et Salvator earum:
veni ad salvandum nos, Domine, Deus noster.
Dal Vangelo secondo Luca (1,57-66)
In quei giorni, per Elisabetta si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio. I vicini e i parenti udirono che il Signore aveva manifestato in lei la sua grande misericordia, e si rallegravano con lei.
Otto giorni dopo vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo con il nome di suo padre, Zaccarìa. Ma sua madre intervenne: «No, si chiamerà Giovanni». Le dissero: «Non c’è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome».
Allora domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. Egli chiese una tavoletta e scrisse: «Giovanni è il suo nome». Tutti furono meravigliati. All’istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio.
Tutti i loro vicini furono presi da timore, e per tutta la regione montuosa della Giudea si discorreva di tutte queste cose. Tutti coloro che le udivano, le custodivano in cuor loro, dicendo: «Che sarà mai questo bambino?». E davvero la mano del Signore era con lui.
Il Signore guida ciascuno
per la propria strada,
e ciò che chiamiamo “destino”
è l’opera sua d’artista, dell’artista divino
che si prepara la materia
e la forma per diverse vie:
con lievi tocchi di dita
ma anche a colpi di scalpello.
Non è materia inerte quella che Dio lavora.
La sua più grande gioia di creatore
è che nasce la vita sotto la sua mano,
che vita gli sgorga incontro,
quella vita che vi ha posto dentro egli stesso
e che ora dal di dentro risponde
ai tocchi lievi delle dita,
ai colpi di scalpello.
È così che collaboriamo
alla sua opera d’artista.
s. Teresa Benedetta della Croce (Edith Stein)
Zaccaria sacerdote nel Tempio di Gerusalemme e Giovanni, suo figlio, a predicare nel deserto e sulle rive del Giordano, così diversi ma cosi uguali nell’obbedire alla volontà di Dio.
Io credo che la mano del Signore sia sempre e comunque sui nostri figli. E forse non sono tanto i “no” da dire ai figli, ma avere un dialogo continuo con loro, far capire cosa sia il bene e cosa sia il male, almeno tentare, e probabilmente in tal modo riuscirebbero a sentire la mano del Signore che è sempre su di loro.
No ai figli, ma anche a se stessi genitori, al troppo tempo speso sui social. Meglio una socializzazione viva, attiva, in carne, ossa ed emozioni, per tenersi allenati alla bellezza delle sfumature e delle molteplici diversità che ci rendono unici e capaci di rispettarle e rispettarci.
No quando la motivazione è: “ma lo fanno tutti!”