In corso d’opera (La Parola prende corpo)
Lunedì – quarta settimana di Quaresima
(Is 65,17-21 / Sal 29 / Gv 4,43-54)
Da lontano i profeti già lo avevano visto. Ne parlavano come si racconta un sogno, una visione… una speranza. Non sapevano dove e quando ma alcuni di loro descrivono cose mai udite perché mai ancora accadute. Isaia, il profeta che alterna ai rimproveri delle stupende visioni, oggi apre una finestra. «Ecco, io creo nuovi cieli e nuova terra; non si ricorderà più il passato, non verrà più in mente, poiché si godrà e si gioirà sempre di quello che sto per creare… Non si udranno più voci di pianto, grida di angoscia. Non ci sarà più
un bimbo che viva solo pochi giorni, né un vecchio che dei suoi giorni non giunga alla pienezza, poiché il più giovane morirà a cento anni» (Is 65)
Il fatto è che i nostri occhi e la nostra mente non riesce a sganciare da cose già udite e già viste, come fossimo calamitati da un ricordo che strugge. Il profeta Isaia tenta di catturare la nostra attenzione, il nostro sguardo verso un mondo che ancora sembra proprio non esserci. Eppure, se per un istante osservassimo la storia e i progressi che l’uomo ha compiuto potremmo davvero dire (statistiche alla mano) che la vita s’è allungata. E basterebbe dire che quando la Chiesa, ad un certo punto della sua storia, decise di celebrare il battesimo anche per i piccoli appena nati (e non a persone adulte e coscienti) fu proprio in un periodo in cui era altissima la mortalità infantile. Ad uno sguardo più panoramico, per altre prospettive parrebbe davvero che la visione di Isaia sia in corso d’opera.
Sono d’accordo: potremmo comunque aprire mille riflessioni sulla qualità della vita ad una certa età. E restano sempre quelle domande sul perché anche solo un bambino – uno – muore. I nostri dilemmi e tutti gli enigmi tuttavia potrebbero ogni tanto mescolarsi con degli attimi in cui la speranza concede visioni future più pacifiche, più serene. E forse potrebbe bastare sapere che una morte innocente, un dolore inspiegabile aprono nel cuore riflessioni che altrimenti non avremmo mai fatto. E visioni che altrimenti non avremmo mai visto. In fondo ciò che anche Isaia scrive, potrebbe essere scrittura di un sentire comune. O forse soltanto l’esile folle speranza di uno solo che prova ad immaginare il Bene in mezzo ad un mondo di straziati e disperati.
C’è un abisso, potremmo dire, tra realtà e visioni; tra il presente e la speranza di un futuro migliore. Tra ciò che vorremo essere e ciò che siamo concretamente. Potremmo anche dire che proprio il nostro tempo è un tempo di visioni corte, di speranze che sembrano disilluse già sul nascere e non dei “colpi di reni” che ci diano una mossa verso una nuova creazione, verso il Bene, verso la Luce, verso la Vita.
Colui che disse: «Ecco, faccio nuove tutte le cose, non ve ne accorgete?» (Ap 21, 5) ancora ce lo sta chiedendo. Nel corso della storia, la Parola di Dio che ogni giorno meditiamo ci sta chiedendo di vedere la salvezza di Dio in corso d’opera. Mi pare che con questo criterio interpretativo potremmo leggere anche il Vangelo di oggi. Ad una prima lettura il brano sembra proprio avvallare la tesi, già espressa altrove nei Vangeli, che siamo un po’ tutti dei san Tommaso, persone che se non vedono non credono. Sempre in cerca di segni, di prodigi e di miracoli. Anche Gesù rimprovererà «questa generazione» perché cerca un segno. Ma qual’è la generazione che cerca segni? La sua? La nostra? Quindi tutte le generazioni? L’uomo in genere è fatto così. Certi salmi, oltretutto, ci hanno educati a presentarci davanti a Dio proprio come una generazione che cerca il Suo volto (salmo 23 e salmo 26 per citarne alcuni). Il fatto è che alla ricerca del volto abbiniamo anche certi benefici, delle benedizioni, dei segni.
Proviamo tuttavia a meditare il Vangelo di oggi per un altra strada. Qui non c’è Gesù che rifiuta il segno. Per altro, si dice anche che i Galilei lo accolsero e quindi non manifestarono la solita e quasi proverbiale ritrosia ad accogliere un profeta di Dio. Il Vangelo di oggi, ci porta piano piano, passo passo a scoprire questo dispiegamento verso il Bene, questa graduale progressione dall’angoscia per la morte di un figlio alla conferma che la Parola di Gesù ha effetti benefici sulla vita corporale. L’incarnazione della Parola, passa per uno spirito affranto di un padre il quale si incammina abbandonando la regione dell’angoscia e dell’inquietudine per raggiungere la sua casa, dove la stessa parola di Gesù unita alla fede dell’uomo è già ricaduta, benefica, sul corpo di un figlio malato.
Noi abbiamo bisogno di Dio, lo cerchiamo. Ne desideriamo ascoltare anche solo la Parola. Ci basta davvero una Parola di Dio per essere salvi. Ma Dio «ha bisogno» della fede dell’uomo perché la sua parola trovi casa e si incarni. Il Vangelo di Giovanni, che nella prima parte porta il titolo di «Libro dei segni» – e quello di oggi è attestato come il secondo segno a Cana – pare voglia proprio mostrarci che la parola si fa carne. Non per incantesimo, ma per gradualità. Quanto tempo passa tra il primo «Ti amo!» e la realizzazione di un sogno, il metter su casa, la nascita di un figlio? Ecco, la fede è in corso d’opera perché la Parola venga a dimorare in mezzo a noi, metta casa e radici. Perché la Parola prenda corpo.
Da Te, Signore, mai più ci allontaneremo,
facci rivivere e noi invocheremo il tuo nome.
Signore, Dio dell’universo, fa’ che ritorniamo,
fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi.
(salmo 80, 19-20)
Rolf Lislevand, Arianna Savall, Marco Ambrosini, Cromatica, Nuove Musiche
Dal Vangelo secondo Giovanni (4,43-54)
In quel tempo, Gesù partì [dalla Samarìa] per la Galilea. Gesù stesso infatti aveva dichiarato che un profeta non riceve onore nella propria patria. Quando dunque giunse in Galilea, i Galilei lo accolsero, perché avevano visto tutto quello che aveva fatto a Gerusalemme, durante la festa; anch’essi infatti erano andati alla festa.
Andò dunque di nuovo a Cana di Galilea, dove aveva cambiato l’acqua in vino. Vi era un funzionario del re, che aveva un figlio malato a Cafàrnao. Costui, udito che Gesù era venuto dalla Giudea in Galilea, si recò da lui e gli chiedeva di scendere a guarire suo figlio, perché stava per morire.
Gesù gli disse: «Se non vedete segni e prodigi, voi non credete». Il funzionario del re gli disse: «Signore, scendi prima che il mio bambino muoia». Gesù gli rispose: «Va’, tuo figlio vive». Quell’uomo credette alla parola che Gesù gli aveva detto e si mise in cammino.
Proprio mentre scendeva, gli vennero incontro i suoi servi a dirgli: «Tuo figlio vive!». Volle sapere da loro a che ora avesse cominciato a star meglio. Gli dissero: «Ieri, un’ora dopo mezzogiorno, la febbre lo ha lasciato». Il padre riconobbe che proprio a quell’ora Gesù gli aveva detto: «Tuo figlio vive», e credette lui con tutta la sua famiglia.
Questo fu il secondo segno, che Gesù fece quando tornò dalla Giudea in Galilea.
Signore, molti soffrono e stanno male.
Ma poiché ti sei fermato tra noi,
poiché hai voluto fermarti tra noi un’altra volta,
allora è tutt’altra cosa!
Non ti chiediamo nulla:
ci basta che tu sia con noi.
Noi possiamo divenire anche più cattivi,
ma se tu resti,
anche questo grosso male passerà.
Signore, grazie!
Ci sentiamo meno male al cuore.
C’è già qualche cosa di nuovo, oggi:
ci sei Tu!
don Primo Mazzolari
“E sulla Tua parola io credo nell’amore, io vivo nella pace”… Poter credere sulla Sua parola (come ha fatto questo padre), sentendo la Sua presenza nella nostra vita, nei momenti felici ed ancor più nei momenti bui e difficili, è un dono per cui render grazie e se la fede sembra venir meno possiamo sempre chiederGli fiduciosamente “aiuta la mia incredulità”. Che il Signore accresca la nostra fede, vedremo segni visibili ed invisibili della Sua presenza tra noi.
C’è sempre qualcosa di nuovo ogni giorno. Ieri non me ne ero accorta, ma quel tintinnio che facevano le carrube del glicine mentre staccate dal vento cadevano a terra era speciale, in quel tintinnio così piacevole all’udito c’era sicuramente la tua presenza Signore.
Vorrei essere sempre più attenta solo così tutto si rinnoverà.
Aspettare i “tempi di Dio” è davvero difficile ma, quando si riesce ad affidarsi a lui e fidarsi dell’attesa, si capisce -senza ombra di dubbio- il perché quell’incastro non poteva essere piú perfetto. Ma l’attesa è faticosa e, sino a che non si è verificato di persona, sulla propria pelle, che quell’attesa lì ci voleva comunque, non se ne comprende il valore. Siamo ancora quel “popolo dalla cervice dura” di cui parla la Bibbia, perché? Perché siamo fatti così proprio di nostro! E allora cosa fare? Magari inziare, piano piano, ad allenarsi all’attesa… Che almeno quella poi diventa più leggera. Non parlo dell’attesa di “tornare normali”, beninteso, anche perché quella non dipende (solo) da noi, ma ci sono anche altre attese, più piccole, un po’ più facili, che dipendono da noi e a cui ci possiamo allenare.