Per dare (la vita), non per prendere (potere)

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Data :17 Novembre 2021
(2Mac 7,1.20-31 / Sal 16 / Lc 19,11-28)

Avvicinandosi alla città di Gerico, guarì il cieco. Quando poi entrò in città, si fermò ai piedi di un sicomoro per poi entrare nella casa di Zaccheo. Ora il viaggio verso Gerusalemme riprende. È l’ultimo tratto di strada.

È ascesa e ascesi. Si ascende perchè dalla depressione della Terra, nei pressi del mar Morto si deve risalire fino alle alture di Sion, di Gerusalemme. Un dislivello di mille metri se consideriamo che Gerico si trova a meno duecentocinquanta metri sotto il livello del mare e Gerusalemme a più settecentocinquanta. Ma è pure un’ascesi perché proprio a Gerusalemme il Figlio dell’uomo darà la sua vita. Nel linguaggio dell’epoca l’espressione «salire a Gerusalemme» significava pure «salire al potere», prendere possesso di un trono nella città simbolo di un regno. Gesù utilizzava questa espressione ma non in questo senso, sicché molti, forti di questo linguaggio comune, lo pensarono in ascesa verso il potere mentre egli compiva l’ascesi più grande per l’uomo: dare la propria vita.

Così, cammin facendo, Gesù racconta la parabola che sta al cuore della nostra meditazione quotidiana. È una parabola che fa allusione ad un fatto storico (la partenza di Erode che andò a Roma per ricevere il titolo per poter esercitare il suo potere in terra di Palestina) ma gioca proprio sul livello della nostra stessa capacità di comprensione. Un uomo di nobile famiglia partì per un paese lontano, per ricevere il titolo di re e poi ritornare… Ma i suoi cittadini lo odiavano e mandarono dietro di lui una delegazione a dire: “Non vogliamo che costui venga a regnare su di noi”.

Ma la parabola non è questa. La parabola è nel gesto di consegna di dieci monete d’oro a dieci servi. Una moneta ciascuno. L’accento è da porre proprio sulla consegna, sul dono, su questo tesoro affidato. Gesù, sta parlando di sé: egli non sale a Gerusalemme per prendere potere ma per donare la sua vita. 

Eccoci dunque: custodi di questo tesoro che ci è stato affidato. Dalla sua morte e resurrezione al suo ritorno definitivo (che, certo, dovremmo imparare ad attendere maggiormente) c’è questo tempo – il nostro – durante il quale siamo chiamati a far fruttare quell’unica vita donata a noi. Non si parla di talenti nel senso di particolari capacità, di attitudini personali. Qui si parla di dieci monete d’oro che nell’essere condivise non fanno altro che moltiplicare il loro valore. Il valore di ogni singola moneta aumenta quando questa viene investita e fatta fruttare. Laddove invece del generoso padrone si ha solo paura e non se ne comprende l’assoluta fiducia riposta nei suoi servi, allora non ci può essere che paura di agire, di far fruttare il dono. E questo è un vero spreco. Questo è svilire il valore di quel dono che certo si comprende solo nella misura in cui è investito e fatto fruttare. 

Una moneta d’oro. La vita. La Sua vita. La vita eterna – vita dell’Eterno –  consegnata a tutti indistintamente. Al cieco come a Zaccheo, a Pietro come a Giuda, alla Maddalena come a Maria… a Francesco d’Assisi come a Elisabetta d’Ungheria… a ciascuno di noi. Che uso ne faccio? O forse, in fondo, neppure noi vogliamo che Costui regni su di noi?

«Fin dall’inizio, il cristianesimo ha subito la stessa tentazione a cui fu esposto Gesù di Nazareth dal principio della sua opera di proclamazione del Vangelo: la tentazione della potenza. La prova che fu la sua e che rimane sempre la nostra: il Regno verrà per mezzo della vittoria finale su tutte le forze del male, oppure verrà, al contrario, mediante un’ondata di fiducia e vita vivente che ridurrà questo demonismo all’impotenza? […] Il Vangelo si serve della metafora del Regno per dirottare la delusione sulla delusione stessa, mostrando che la volontà di potenza delude assolutamente, mentre l’amore-dono è il solo bene che concilia con vita vivente (come l’amore, la vita è donata per essere condivisa)». (Dominique Collin, Il cristianesimo non esiste ancora, ed. Queriniana, 2020)

Spirito di Dio,
che con sapienza hai plasmato questo mondo
dalle cose più grandi a quelle più piccole
in modo giusto ed equlibrato,
illumina i nostri pensieri,
rendi la nostra parola efficace
e trasforma le nostre azioni
in un segno del tuo agire.

Dal Vangelo secondo Luca (19,11-28)

In quel tempo, Gesù disse una parabola, perché era vicino a Gerusalemme ed essi pensavano che il regno di Dio dovesse manifestarsi da un momento all’altro.
Disse dunque: «Un uomo di nobile famiglia partì per un paese lontano, per ricevere il titolo di re e poi ritornare. Chiamati dieci dei suoi servi, consegnò loro dieci monete d’oro, dicendo: “Fatele fruttare fino al mio ritorno”. Ma i suoi cittadini lo odiavano e mandarono dietro di lui una delegazione a dire: “Non vogliamo che costui venga a regnare su di noi”. Dopo aver ricevuto il titolo di re, egli ritornò e fece chiamare quei servi a cui aveva consegnato il denaro, per sapere quanto ciascuno avesse guadagnato.
Si presentò il primo e disse: “Signore, la tua moneta d’oro ne ha fruttate dieci”. Gli disse: “Bene, servo buono! Poiché ti sei mostrato fedele nel poco, ricevi il potere sopra dieci città”.
Poi si presentò il secondo e disse: “Signore, la tua moneta d’oro ne ha fruttate cinque”. Anche a questo disse: “Tu pure sarai a capo di cinque città”.
Venne poi anche un altro e disse: “Signore, ecco la tua moneta d’oro, che ho tenuto nascosta in un fazzoletto; avevo paura di te, che sei un uomo severo: prendi quello che non hai messo in deposito e mieti quello che non hai seminato”. Gli rispose: “Dalle tue stesse parole ti giudico, servo malvagio! Sapevi che sono un uomo severo, che prendo quello che non ho messo in deposito e mieto quello che non ho seminato: perché allora non hai consegnato il mio denaro a una banca? Al mio ritorno l’avrei riscosso con gli interessi”. Disse poi ai presenti: “Toglietegli la moneta d’oro e datela a colui che ne ha dieci”. Gli risposero: “Signore, ne ha già dieci!”. “Io vi dico: A chi ha, sarà dato; invece a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha. E quei miei nemici, che non volevano che io diventassi loro re, conduceteli qui e uccideteli davanti a me”».
Dette queste cose, Gesù camminava davanti a tutti salendo verso Gerusalemme.

Daniele Scarpa e Francesco Buttazzo, Prenderemo il largo (dall’album «Vieni soffio di Dio»)

Questo è il nostro tempo,
per osare, per andare,
la parola che ci chiama è quella tua.
Come un giorno a Pietro, anche oggi dici a noi:
«Getta al largo le tue reti insieme a me».

Saliremo in questa barca anche noi,
il tuo vento soffia già sulle vele.
Prenderemo il largo dove vuoi tu,
navigando insieme a te, Gesù.

Questo è il nostro tempo,
questo è il mondo che ci dai,
orizzonti nuovi, vie d’umanità.
Come un giorno a Pietro, anche oggi dici a noi:
«Se mi ami più di tutto segui me». R/

Navigando in mari
della storia insieme a te,
la tua barca in mezzo a forti venti va.
Come un giorno a Pietro, anche oggi dici a noi:
«Se tu credi in me, tu non affonderai». R/


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