Per una “mistica” del vivere insieme
L’immagine – certo – stride con le norme comportamentali alle quali siamo ormai abituati. Ha il sapore della nostalgia, per non dire del proibito. Verso questo distanziamento umano ci eravamo già incamminati da tempo. Ciò che è accaduto per effetto di pandemia è piuttosto una presa di coscienza collettiva; il sigillo alla necessità di starcene a debita distanza è venuto dalla costante minaccia del contagio. La religione – almeno nella nostra Europa – sembra non avere più presa sulle persone. Tuttavia certi criteri che da sempre sostengono alcuni processi di identificazione religiosa – basterebbe soltanto citare il concetto di puro e impuro – ci sono rimasti dentro, semplicemente spostati sul piano della vita quotidiana. Una nuova religione? Una nuova dottrina? Ci sarebbe sempre da distinguere tra religione e fede. La prima è fatto umano. La seconda è dono dal cielo, offerto per i cristiani da Gesù stesso. Fede poi, fa sempre rima con fiducia. Possiamo così assistere nel tempo allo smantellamento di vecchi sistemi religiosi o all’assunzione di nuove religiosità. Ma nulla di tutto ciò servirà a parlare di fede, di fiducia.
«Oggi, quando le reti e gli strumenti della comunicazione umana hanno raggiunto sviluppi inauditi, sentiamo la sfida di scoprire e di trasmettere la “mistica” di vivere insieme, di mescolarci, di incontrarci, di prenderci in braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa marea un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio».
Si legge così Papa Francesco nell’esortazione apostolica Evaangelii Gaudium al numero 92. Si noti che sono già passati nove anni dalla sua pubblicazione, ma come non riconoscere a queste parole un carattere profetico? Ci basterà pensare all’aumento esponenziale di solitudini e di episodi di violenza, esacerbati ancor più dagli effetti di questi due anni di emergenza.
Ciò che appare per noi un quadro preoccupante al limite dell’inaudito o del mai visto prima, se osservato con occhi evangelici diventa piuttosto una messe abbondante per la quale non mancherebbero che gli operai. Non si dimentichi che il campo di grano biondeggiante, trapuntato magari di papaveri rossi e fiordalisi blu, è pura poesia per il passante dall’occhio attento ma per il contadino è nuovo richiamo alla fatica, al lavoro che ne seguirà per non disperdere la fatica precedente dell’aratura e della semina, senza dimenticare neppure la morte silenziosa del chicco di grano.
Questo brano evangelico che oggi è proposto alla nostra riflessione nella memoria dei santi Timoteo e Tito ha qualcosa di sorprendente se lo si paragona al racconto della chiamata e dell’invio in missione dei Dodici. Proviamo anche solo brevemente a confrontarli.
In quei giorni egli se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio. Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede anche il nome di apostoli. (Lc 6,12-13). Dopo un tempo di istruzione e di formazione – diremmo noi oggi – convocò i Dodici e diede loro forza e potere su tutti i demòni e di guarire le malattie. E li mandò ad annunciare il regno di Dio e a guarire gli infermi. Disse loro: «Non prendete nulla per il viaggio, né bastone, né sacca, né pane, né denaro, e non portatevi due tuniche. In qualunque casa entriate, rimanete là, e di là poi ripartite. Quanto a coloro che non vi accolgono, uscite dalla loro città e scuotete la polvere dai vostri piedi come testimonianza contro di loro». Allora essi uscirono e giravano di villaggio in villaggio, ovunque annunciando la buona notizia e operando guarigioni. (Lc 9,1-6).
Il fatto stesso che la chiamata dei Dodici avviene al capitolo sesto e il loro conseguente invio soltanto al capitolo nono, già questo basta per farci comprendere che è passato del tempo tra chiamata e missione. Il Vangelo di oggi risulterà dunque ancor più sorprende: il Signore ne designò altri settantadue e li inviò a due a due (Lc 10,1). Un numero sei volte maggiore rispetto ai Dodici. C’è un grande investimento di energie potremmo dire. Ma soprattutto – oltre i numeri – li designa e subito li invia. L’urgenza è data dalla messe che non può attendere. C’è una netta semplificazione: dalla designazione si procede subito all’invio. Questa volta nessun appellativo, nessun tempo di formazione. Eppure non partono all’arrembaggio. C’è qualcosa che fonda questo invio ed è precisamente la preghiera al padrone della messe che suona non solo come un invito ma come garanzia. Dobbiamo sempre pensare che ciò che Gesù chiede, Egli per primo lo ha già vissuto. E dunque perfino questa missione dei Settantadue nasce dalla preghiera di Gesù, non da riunioni strategiche, non da piani o progetti. Sarebbe anche interessante, ogni tanto, avere il coraggio di valutare qual è stato il risultato di tanti progetti. Sarebbe interessante chiederci se ci siamo sentiti più vivi nella stesura di un piano pastorale o nella vita tout-court proposta a noi dal Vangelo, una vita semplice dove una reale vita di comunione e di fraternità ha perfino precedenza su un saluto per via.
E se davvero noi fossimo davanti ad una messe abbondante? E se davvero fosse questo il tempo di «buttarci» maggiormente e sbilanciare la Chiesa in questa mistica della vita comune, del vivere insieme? Davanti a queste solitudini evidenti quale segno migliore dell’ospitalità? Il Vangelo dunque mostra tutta la bellezza di una vita passata al vaglio della preghiera. Il Vangelo è così uno stile di vita un modo differente di stare al mondo assunto da più persone. Qualcosa poi accadrà. A noi è chiesto di andare verso la messe. Il risultato solo Dio lo conosce. In Pane sull’altare e sulla tavola di casa condiviso sarebbe proprio il segno evidente di ciò che Dio già vede e contempla alla fine della creazione. E vide che era cosa buona!
…concedi a noi
di vivere con giustizia e pietà
in questo mondo
per giungere alla patria del cielo.
(dalla liturgia)
Dal Vangelo secondo Luca (10,1-9)
In quel tempo, il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi.
Diceva loro: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe! Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada.
In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra.
Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio”».
Ora che i marciapiedi
gridano accorati
alla ristrettezza,
sorte amara è andare
uno in fila all’altro
senza abbracciarsi,
senza raccontarsi,
quasi fosse divieto
d’amore e di amicizia.
Inseguo da lontano la piazza
la panchina del raccontare,
il rimasuglio di una sosta,
l’entrata negli occhi.
(Angelo Casati, La panchina del raccontare, in E non avere occhi spenti)
Una canzone usata per la recita finale nella mia breve esperienza alla scuola dell’infanzia “goccia dopo goccia” mi è rimasta nella mente e nel cuore perché tutti i bambini avevano una parte, la facevano insieme. Un breve stralcio del testo: “goccia dopo goccia nasce un fiume, un passo dopo l’altro si va lontano…non importa se non siamo grandi come le montagne, quello che conta è stare tutti insieme per aiutare chi non ce la fa”. Dopo questa esperienza però sono tornata, grazie a Dio, là dove mi batteva il cuore, ad un lavoro che trovo ancora oggi stancamente meraviglioso perché ti permette di “prendere tra le mani” da subito un tesoro prezioso. Ed in questo scoprirci e vivere tracce di Vangelo qua e là, proprio grazie a loro e a quel lavoro di abbassamento costante che ti permette di vedere però una grandezza inimmaginabile: quella di piccole anime pure e belle. Servire loro e servire chiunque ha bisogno per imparare a farsi tutto per tutti come Colui che ce lo ha insegnato e se in qualcosa che facciamo qualcuno arriva a pensare a Dio, ci restituisce la straordinarietà di quella cosa sarà motivo per renderGli ancor più grazie per la santità che risveglia in noi, in chiunque crede che le Sue parole abbiano ancora grande valore e non se ne scandalizza. Possiamo anche noi essere tante piccole pagine di Vangelo, che mettono in risalto ancor più quello vero ed unico che cercano di vivere dove si trovano, nelle esperienze e negli incontri che fanno.
È bello sentirsi parte di una meravigliosa storia d’amore pensando che tutto ha avuto inizio così: dal Suo pensiero d’amore. Dio gioisce nel vederci fare l’amore così come soffre per l’esatto contrario.
Contagiarsi di bene e di pensieri positivi ci aiuterà a sconfiggere e superare anche la positività che oggi nessuno vorrebbe. Questa è la vicinanza possibile anche nella distanza: di cuore e di pensiero costante, gli uni per gli altri.
Ad ogni contesto ciò che appare migliorativo o salvifico spesso è divisivo. Come non pensare ai vaccini? E ai tamponi fai da te? Per alcuni è gesto quotidiano e vorrebbe che il proprio familiare, amico o collega facesse altrettanto.
I cambiamenti che dal mio angolo di mondo vedo attuarsi dietro al paravento di una migliore organizzazione evitano sempre più i contatti. Porte chiuse, controlli, app per prendere appuntamenti. O le consegne a domicilio. C’è la corsa per accaparrarsi il primato del programma che gestisce il tutto. Vogliamo quindi rendere definitivo ciò che è emergenza.
C’è tanta sofferenza nella solitudine, ad ogni fase delle età.
Nella speranza di un nuovo mondo, altri uomini hanno perso la vita, accalcati su un barcone. Morti di freddo.
Grazie quindi don Stefano per l’invito a buttarci, senza mai perdere di vista il pane, dall’altare alla casa.
Ieri è morto Federico, un piccolo di sei anni, alunno della classe prima della scuola dove lavoro… in questi pochi mesi, mi dicono le colleghe, è venuto a scuola volentieri e fino all’ultimo ha voluto frequentare con i suoi amici. Mi dispiace di non aver potuto incrociare il tuo sguardo di bambino reso già adulto dalla sofferenza. Vegliaci dal cielo…