Pietro e Giovanni: istituzione e profezia
Teniamo ancora in mente l’ambientazione del vangelo di ieri. Siamo sempre in riva al mare, un fuoco, del cibo da condividere ma soprattutto il risorto, finalmente riconosciuto da tutti i presenti come Signore. Nessuno dei presenti avrebbe più chiesto: «Chi sei?». Hanno imparato a conoscerlo e a riconoscerlo. E hanno pure imparato a conoscere se stessi attraverso la relazione con Lui. In effetti è sempre per un incontro con l’altro che noi possiamo conoscerci meglio. Pietro, dopo la miracolosa pesca, per raggiungere il Signore s’era cinto da solo la veste ai fianchi. Il Signore annunciava a Pietro che avrebbe indossato lui pure il grembiule di chi lava i piedi e che lui pure avrebbe dato la vita, non tanto per il Signore quanto per i fratelli, per le pecore di quel gregge che ora sarebbe stato condotto da Pietro.
Simon Pietro – non c’è neppure bisogno di ricordarlo – disse a Gesù: «Signore, dove vai?». Gli rispose Gesù: «Dove io vado per ora tu non puoi seguirmi; mi seguirai più tardi». Pietro disse: «Signore, perché non posso seguirti ora? Darò la mia vita per te!». Rispose Gesù: «Darai la tua vita per me? In verità, in verità ti dico: non canterà il gallo, prima che tu non m’abbia rinnegato tre volte». (Gv 13, 36-38).
Trovo geniale l’aforisma poetico di C. Bobin ne «L’uomo che cammina» quando scrive a proposito di Gesù: non dice «amatemi», dice «amatevi». Parafrasando la stessa espressione potremmo quindi che Pietro non deve dare la vita per il Signore, ma deve darla per i fratelli, per le pecore e gli agnelli, gregge del bel pastore.
Siamo al termine del Vangelo. Compare la firma dell’autore. Non un testo anonimo, bensì il testo di chi, ponendo la propria firma intende metterci la vita. Porre una firma è anche questa una dichiarazione di identità. L’autore del quarto Vangelo si fa conoscere al termine dell’opera che Dio ha compiuto attraverso Gesù. Egli stesso si sente più compiuto.
Ora è Pietro a porre una domanda a Gesù proprio a proposito di colui che ha raccontato le cose accadute: «Signore, che cosa sarà di lui?». Pietro geloso di Giovanni? Una sottile di rivalità tra i due discepoli? Difficile immaginarlo. Forse umanamente parlando potremmo anche pensarlo, ma non perché nel Vangelo sia chiaro, ma perché sappiamo bene come vanno le cose nella vita degli uomini. Ma ci sono interpretazioni molto più interessanti che possiamo considerare.
Uno dei più celebri esegeti (Xavier Léon-Dufour) afferma che quella domanda non è tanto da riferirsi alla persona fisica di Giovanni quanto piuttosto al testo del Vangelo che va sotto il suo nome. È evidente la diversità di impostazione del Vangelo di Giovanni rispetto agli altri tre: Matteo, Marco e Luca. Con questa risposta, Gesù affermerebbe dunque che anche il messaggio contenuto nel quarto Vangelo continuerà la sua corsa fino a noi e fino alla fine di tempi.
Pietro, al termine del racconto giovanneo, pare già rappresentante di una comunità di discepoli fattasi già istituzione. Giovanni stesso e la comunità che fa capo a questo discepolo riconoscono anch’essi questo primato a Pietro. Pietro tuttavia è chiamato ad accettare e accogliere pure questa presenza di Giovanni, presenza che pare più legata all’amore. Pietro e Giovanni fanno da richiamo l’uno all’altro: istituzione e profezia. La prima vorrebbe garantire continuità e solidità. La seconda ci ricorda che non tutto può essere previsto e controllato istituzionalmente. Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù…
Lo sappiamo: nella storia della Chiesa, nel cammino dei cristiani, certe intuizioni profetiche sono state un grosso interrogativo per l’istituzione stessa. È in rapporto al Signore che istituzione e profezia trovano ragion d’essere. Non l’una senza l’altra. Non so se anche a voi capita di guardarvi attorno per cercare di scorgere in questa Chiesa, a tratti fin troppo istituzionale, quella profezia che Gesù stesso autorizza ad esistere; per scorgere ciò che lo Spirito del Signore sta ancora compiendo in mezzo a noi e che non si possono contenere in un libro. Ci sono vite umanissime che non entreranno negli schemi di un’istituzione o nei libri che raccontano la grande storia. Sono storie umane che pur non essendo scritte, hanno il profumo di Cristo, il sapore del Vangelo. Sono vite umane che in qualche modo sono già contenute nel Vangelo in alcuni incontri con Gesù, che diventano paradigmatici, nei cui personaggi ci siamo spesso potuti identificare. Chi di noi non s’è sentito mai Nicodemo? O la Samaritana? O il cieco guarito? … E Pietro? E il discepolo amato?
Dio onnipotente, ai tuoi figli,
che hanno celebrato con gioia le feste pasquali,
concedi, per tua grazia,
di testimoniare nella vita e nelle opere
la loro forza salvifica.
Venga, o Signore, il tuo santo Spirito
e disponga i nostri cuori
a celebrare degnamente i santi misteri,
perché egli è la remissione di tutti i peccati.
(due orazioni della liturgia odierna)
Dal Vangelo secondo Giovanni (21,20-25)
In quel tempo, Pietro si voltò e vide che li seguiva quel discepolo che Gesù amava, colui che nella cena si era chinato sul suo petto e gli aveva domandato: «Signore, chi è che ti tradisce?». Pietro dunque, come lo vide, disse a Gesù: «Signore, che cosa sarà di lui?». Gesù gli rispose: «Se voglio che egli rimanga finché io venga, a te che importa? Tu seguimi». Si diffuse perciò tra i fratelli la voce che quel discepolo non sarebbe morto. Gesù però non gli aveva detto che non sarebbe morto, ma: «Se voglio che egli rimanga finché io venga, a te che importa?».
Questi è il discepolo che testimonia queste cose e le ha scritte, e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera. Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere.
Forse mai come oggi il tuo Spirito
è stato così attivo da ricreare tutto.
Non ci abbandonare, Signore.
Confidiamo in Te.
A noi che andiamo avanti
ricordando con nostalgia, forse, i tempi passati,
concedi la capacità di scoprire il futuro
con occhi aperti e una speranza senza limiti.
Antonio Hortelano
Dacci, Signore, un’impazienza paziente,
che sappia accettare i tempi della tua santificazione
e perdonare le remore delle nostre resistenze;
ma dacci anche un’impazienza paziente,
che guardi avanti e che sia sempre pronta a pungolare.
E dona, Signore, alla chiesa,
nel suo insieme e nel suo vertice,
la capacità e l’umiltà di accogliere,
senza offesa, l’esigenza dei suoi figli minori,
senza tacciarli di infedeltà,
senza tentare di spegnere il pungolo profetico,
perché importuno e scomodo.
Troppo spesso la tua Chiesa
si è allineata con la sinagoga che Tu bollasti
perché uccideva i profeti.
Anche noi, Signore, abbiamo ucciso i profeti
o abbiamo reso loro la vita difficile,
cercando poi di scaricarci la coscienza
con una bella nicchia, dopo la loro morte.
Perché il profeta vivo da fastidio
e solo il profeta morto comoda:
ci serve da alibi,
ci scarica di tante responsabilità,
riempie tanti vuoti di accidia e di pigrizia,
diventa una facile bandiera,
integrata nel trionfalismo ecclesiale.
Insegnaci, Signore, un po’ di pudore.
Insegnaci, Signore, ad amare i profeti anche da vivi,
a tollerare le loro esigenze, che sono le tue esigenze,
ad ascoltare la loro voce, che è la tua voce,
ad accogliere la loro impazienza
– che è ancora la tua impazienza –
come una benedizione del tuo esigente amore.
Adriana Zarri
A dire la verità nella domanda di Pietro ci vedo più la preoccupazione per il giovane discepolo che altro. Pietro ha la consapevolezza che un ragazzino può perdersi, sicuramente dovuta anche alla particolare caratteristica del ragazzo, profetica appunto. Il tutto mi sembra molto in linea con il ruolo che Pietro andava assumendo fra i discepoli. Preoccupazione che viene “sedata” dal Cristo quasi a ribadire che ai suoi discepoli ci pensa Lui.
In effetti leggere questo finale di Vangelo come il prosieguo della parola, più che dell’autore, apre tutta un’altra prospettiva. Rilancia il futuro apre la possibilità all’evoluzione e, con essa, al cambiamento. È bella l’immagine dei fiori di campo messa a chiusura oggi. Fa tornare alla mente un’altra parte della Bibbia, dove si citano proprio i fiori del campo per invitare i lettori a non preoccuparsi troppo, che se Dio pensa tanto bene a loro, tanto più pensa a noi! E allora mi viene in mente anche che, se pure i fiori del campo cambiano, di stagione in stagione, ed anche evolvono, di anno in anno, è davvero il caso che noi ci si preoccupi tanto di “mantenere la Chiesa tradizionale”? In fin dei conti è stata una bella novità -ai tempi- il passaggio dalla messa in latino a quella in italiano, che poi è stata più che altro un’apertura ANCHE alla messa in italiano. Possiamo e, io credo, dobbiamo anche oggi, non aver troppa paura di “fare un passetto in più”, avere il coraggio di “aprirsi un po’ di più” per abbracciare meglio le necessità dell’uomo di oggi. Perciò benedico di cuore tutti i fratelli e le sorelle consacrati (che ce ne sono!) capaci di essere in prima persona attori di un cambiamento che, mi auguro, possa piano piano farsi strada anche “ufficialmente”. Ma lo Spirito ha, giustamente, i suoi tempi e, perché le cose si sviluppino a dovere, serve prima il gran lavorio della radicazio e: il primo -faticoso e nascosto- slancio d’amore.