Siamo già dentro il segno
(Gen 3,1-8 / Sal 31 / Mc 7,31-37)
Gridare al miracolo sarebbe ingenuità da prima vista. Per questo intendere la fede come qualcosa di magico, come un intervento divino che compie semplicemente quell’impossibile che all’uomo non è possibile. E così, quand’anche il nostro vedere segni è al limite di confonderci le idee, altro non ci resta che tornare ad ascoltare più attentamente (prova che noi pure siamo sordi?!) per poi raccontare meglio e parlare più correttamente.
Quelli che noi insistiamo a chiamare miracoli, vanno più semplicemente sotto il nome di «guarigioni». Tipicamente i suoi effetti hanno ricadute benefiche anche sugli astanti e non solo sul diretto interessato. I Vangeli non tralasciano di raccontare anche che in certi luoghi non compì alcun segno o ne fece pochissimi. Nella sua patria più precisamente. Perché? Perché nessuno era disposto – per fede – a compiere un segno che fosse frutto di una collaborazione. Potremmo dire che i racconti di guarigione avvengono quasi sempre seguendo un medesimo schema, senza che questo diventi un semplice e preciso rituale.
Prendiamo il racconto di oggi: c’è qualcuno che porta a Gesù un sordomuto. È un uomo che non ha mai potuto ascoltare Gesù e che nemmeno può aver sentito ciò che di Lui si diceva; un uomo incapace di esprimere il suo bisogno, di verbalizzare il suo desiderio di guarigione. (Ci sarebbe sempre da verificare anche questo: la volontà propria di guarire. «Lasciarsi andare» è un’espressione che utilizziamo anche per descrivere lo stato d’animo di qualcuno quando non vorrebbe più guarire).
Ma ecco l’inizio del segno: portare davanti a Gesù l’uomo che di Lui non sa proprio nulla, l’uomo incapace perfino di verbalizzare i suoi bisogni. Non sapere più a chi rivolgersi e a che santo votarsi, è l’espressione che meglio traduce questo umanissimo smarrimento. E così – è vero – abbiamo imparato a portare nella nostra preghiera persone bisognose di un’intercessione, convinti che se lo chiediamo insieme il Cielo senta meglio. È una grande cosa – ripeto – questo affidarci alle preghiere altrui e chiamare in aiuto amici e conoscenti per dare più forza alle nostre preghiere… peccato che, come spesso accade, non sappiamo esattamente cosa e come chiedere. E così ci accorgiamo che quel «Ti chiedo di pregare» suona come un «Ti prego di pregare». «Ti prego!» è richiesta scongiurata di aiuto che l’uomo rivolge ai suoi simili. Quel giorno andarono da Gesù portandogli quel sordomuto con questa preghiera. Dice il testo del Vangelo: «Lo pregarono di imporgli la mano». L’imposizione della mano sarebbe già una risposta umanissima all’uomo che chiede proprio una mano.
Preghiere simili risvegliano responsabilità. Ti aprono anzitutto le labbra e le orecchie! E così noi siamo già dentro il fatto prodigioso, siamo già parte di un segno in corso. Portare davanti a Gesù qualche persona bisognosa, potrebbe anche significare di fare in modo che quella persona mentre è avvinghiata dal suo dolore, dal suo problema, possa incontrare il Vangelo. E in fondo pensiamoci un istante: quando noi ci siamo aperti all’ascolto delle Scritture? Probabilmente non ai tempi del catechismo. Sì, forse o in parte. Ma senza una reale coscienza di ciò che stava per accadere in noi. Probabilmente il nostro vero incontro con Cristo, con il suo Vangelo, è avvenuto nei giorni di un dolore, di una prova, di una sofferenza e perfino di un lutto. Come sarà – racconto pasquale – per i discepoli di Emmaus.
Siamo soliti cimentarsi con formule di incoraggiamento davanti a chi soffre. Intendiamoci: può far bene. Se non siamo maldestri. Spesso ci accorgiamo pure di aver detto delle cose che forse…
È bello questo gesto di coloro che portano il sordomuto davanti alla Parola di Gesù. E basta davvero una parola per salvarlo. Quel sordomuto udì proprio quella parola, pronunciata apposta per lui. Scoprì ciò che noi continuiamo a ripetere quasi meccanicamente nelle nostre liturgie, senza realmente credere che una sua unica parola potrebbe bastarci. Chiedere a qualcuno di pregare per qualcun altro significa prodigarci con tutto noi stessi perché quella persona oggetto delle nostre preghiere sia portato come soggetto davanti a Gesù, alla sua Parola. Potrei dirla quasi brutalmente: che quella persona bisognosa di tutte le preghiere del mondo possa avere tra le sue mani un Vangelo o qualcuno che – audacemente, di questi tempi – gli parli di ciò che Gesù stesso è venuto a fare.
Questo sarebbe, tra le altre cose, un motivo sufficientemente valido per motivare noi stessi ad avere una discreta conoscenza delle Scritture o del Vangelo. Questa assidua meditazione quotidiana ci potrebbe portare ad un linguaggio più corretto, una testimonianza più limpida. E credere che, in disparte dalla folla, in quell’incontro a tu per tu con la sua Parola accade poi tutto il resto. Il suo sguardo rivolto al cielo – e quel sospiro – prima di pronunciare quell’unica parola «Apriti» indica l’origine della Parola stessa e mette la firma di Colui che disse: «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza» (Gen 1,26).
Questa guarigione che tocca l’ascolto e la capacità di parlare ci riguarda in prima persona: il vero segno della fede è questa rinnovata capacità di ascoltare – come un desiderio che non si esaurisce mai – e questa capacità di testimoniare le grandi cose che Dio compie tra noi, rinnovando un corale stupore: «Ha fatto bene ogni cosa!». C’è una specie di assonanza con le parole della Genesi (che per altro abbiamo pure ascoltato in questi giorni), laddove Dio vedendo le sue opere, frutto di una parola creativa e feconda, esclama il suo stupore. Queste stesse parole di meraviglia suonano ai nostri orecchi come un invito a perseverare, a proseguire in quest’opera. Facciamo l’uomo a immagine e somiglianza di Dio. E non vale più la scusa: «Ma Dio non lo si vede!». Noi siamo quelli che ascoltano. Egli parla. Siamo quelli che credono che l’umanità di Gesù sia spiegazione di Dio stesso. «Chi ha visto me ha visto il Padre» disse.
Cosa sento in ciò che vedo? Cosa vedo quando ascolto?
Rivolgi, Signore,
il tuo sguardo d’amore su di noi:
sulle nostre paure, sui nostri egoismi,
sulle nostre ferite del corpo e dello spirito.
Guarisci, con la forza
e la consolazione dello Spirito santo,
le nostre infermità.
Amen.
Dal Vangelo secondo Marco (Mc 7,31-37)
In quel tempo, Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli.
Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente.
E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».
Sollevo i miei occhi verso i monti
da dove mi verrà l’aiuto?
il mio aiuto verrà dal Signore
egli ha fatto cielo e terra. […]
Il Signore ti custodirà da ogni male
custodirà la tua vita
il Signore custodirà il tuo entrare e il tuo uscire
da ora e per sempre.
(dal salmo 121)
Forse basterebbe già imparare a tacitare, di tanto in tanto, le nostre umanissime preoccupazioni. Senza staccarsi – almeno in parte – da quelle si fa molta più fatica a cogliere il bello, da vedere, sentire e anche annusare, che c’è intorno a noi. Non il bello “impacchettato” per noi, ma il bello più naturale, spontaneo, della quotidianità. Quel bello che c’era, c’è e ci sarà, quello che quando lo scorgi ti apre il cuore e viene proprio spontaneo ringraziare il Creatore di tanta bellezza.
Fin da bambina cercavo Dio, la mia felicità dopo.
Alla confessione allora ci si recava alle sei del mattino.
Andavo in bicicletta, nel tornare sembrava di volare.
Lo sentivo sul mio viso attraverso l’aria che batteva sul volto.
L’incontro attraverso il mio primo dolore: la perdita del mio papà. L’ho cercato alla nascita del nostro terzo figlio nato con una sindrome rara.
L’ho cercato e lo sentivo vicino durante la malattia (Leucemia) del nostro primo figlio, l’ho incontrato quando è salito alla casa del Padre.
Abbiamo pregato, ho fatto pregare. Molti si sono fatti paranoie, altri hanno pregato paranoie con noi. Anche Paolo pregava e anche ora prego: chiedo preghiere e parlo al Signore per affidargli qualche persona. Ora ho messo nelle sue mani M., la mia consuocera.
Sì, è vero! Il Signore è mio compagno di viaggio che mi sostiene con il Suo Spirito Santo, sia nella gioia e nel dolore.
Quando ascolto vedo l’uomo di ieri e di oggi, ripetersi nel bene e nel male. Esercizio quindi indispensabile.
(Trovo interessante il successo attuale dei podcast.)
È proprio così: da quando è iniziata la “pandemia”, ogni mattina leggo il pensiero quotidiano inerenti al Vangelo. La Parola mi fa oltrepassare il dolore, la paura, la solitudine… Mi fa sentire lo Spirito !!! È come respirare forza vitale, sentire l’odore di ciò che amo.