Una mano di bianco (e una favola)
(1Ts 2,9-13 / Sal 138 / Mt 23,27-32)
Il Vangelo di oggi parla di ipocrisia, l’arte di recitare una parte, di far apparire ciò che non corrisponde alla realtà. L’ipocrisia ci fa imbiancare quotidianamente i nostri modi di vivere perché non immaginiamo neppure che una Luce possa entrare dentro quei sepolcri che Dio stesso non vorrebbe far altro che scoperchiare per farci risorgere a vita nuova. A nulla serve poi costruire monumenti a persone importanti se sappiamo che queste sono state uccise da persone i cui comportamenti non ci sono estranei e dai cui comportamenti non riusciamo ancora a prendere distanze. Costruire tombe di profeti come modo per scusarsi della morte provocata dai padri è piuttosto un’accusa manifesta.
Ho ricevuto alcuni giorni fa una favola che mi pare possa aiutarci, a modo suo, ad entrare anche nel Vangelo. Parlare di diritti è da ipocriti se siamo sempre quei privilegiati che fingono ancora di essere i più bisognosi. La favola è stata scritta da Gino e Cecilia Strada.
C’era una volta…
un pianeta chiamato Terra. Si chiamava Terra anche se, a dire il vero, c’era molta più acqua che terra su quel pianeta. Gli abitanti della Terra, infatti, usavano le parole in modo un po’ bislacco. Prendete le automobili, per esempio. Quel coso rotondo che si usa per guidare, loro lo chiamavano “volante”, anche se le macchine non volano affatto! Non sarebbe più logico chiamarlo “guidante”, oppure “girante”, visto che serve per girare? Anche sulle cose importanti si faceva molta confusione.
Si parlava spesso di “diritti”: il diritto all’istruzione, per esempio, significava che tutti i bambini avrebbero potuto (e dovuto!) andare a scuola. Il diritto alla salute poi, avrebbe dovuto significare che chiunque, ferito, oppure malato, doveva avere la possibilità di andare in ospedale. Ma per chi viveva in un paese senza scuole, oppure a causa della guerra non poteva uscire di casa, oppure chi non aveva i soldi per pagare l’ospedale (e questo, nei paesi poveri, è più la regola che l’eccezione), questi diritti erano in realtà dei rovesci: non valevano un fico secco. Siccome non valevano per tutti ma solo per chi se li poteva permettere, queste cose non erano diritti: erano diventati privilegi, e cioè vantaggi particolari riservati a pochi. A volte, addirittura, i potenti della terra chiamavano “operazione di pace” quella che, in realtà, era un’operazione di guerra: dicevano proprio il contrario di quello che in realtà intendevano. E poi, sulla Terra, non c’era più accordo fra gli uomini sui significati: per alcuni ricchezza significava avere diecimila miliardi, per altri voleva dire avere almeno una patata da mangiare.
Quanta confusione! Tanta confusione che un giorno il mago Linguaggio non ne potè più. Linguaggio era un mago potentissimo, che tanto tempo prima aveva inventato le parole e le aveva regalate agli uomini. All’inizio c’era stato un po’ di trambusto, perché gli uomini non sapevano come usarle, e se uno diceva carciofo l’altro pensava al canguro, e se uno chiedeva spaghetti l’altro intendeva gorilla, e al ristorante non ci si capiva mai. Allora il mago Linguaggio appiccicò ad ogni parola un significato preciso, cosicché le parole volessero dire sempre la stessa cosa, e per tutti.
Da allora il carciofo è sempre stato un ortaggio, e il gorilla un animale peloso, e non c’era più il rischio di trovarsi per sbaglio nel piatto un grosso animale peloso, con il suo testone coperto di sugo di pomodoro. Questo lavoro, di dare alle parole un significato preciso, era costato un bel po’ di fatica al mago Linguaggio. Adesso, vedendo che gli uomini se ne infischiavano del suo lavoro, e continuavano ad usarle a capocchia, decise di dare loro una lezione. «Le parole sono importanti» amava dire «se si cambiano le parole si cambia anche il mondo, e poi non si capisce più niente».
Una notte, dunque, si mise a scombinare un po’ le cose, spostando una sillaba qui, una là, mescolando vocali e consonanti, anagrammando i nomi. Alla mattina, infatti, non ci si capiva più niente. A tutti gli alberghi di una grande città aveva rubato la lettera gi e la lettera acca, ed erano diventati… alberi! Decine e decine di enormi alberi, con sopra letti e comodini e frigobar, e i clienti stupitissimi che per scendere dovevano usare le liane come Tarzan. Alle macchine aveva rubato una enne, facendole diventare macchie, e chi cercava la propria automobile trovava soltanto una grossa chiazza colorata parcheggiata in strada. Alle torte invece aveva aggiunto una esse, erano diventate tutte storte, e cadevano per terra prima che i bambini se le potessero mangiare. Erano talmente storte che non erano più buone nemmeno per essere tirate in faccia. Nelle scuole si era anche divertito ad anagrammare, al momento dell’appello, la parola presente, e se prima gli alunni erano tutti presenti, adesso erano tutti serpenti, e le maestre scappavano via terrorizzate.
Poi si era tolto uno sfizio personale: aveva eliminato del tutto la parola guerra, che aveva inventato per sbaglio, e non gli era mai piaciuta. Così un grande capo della terra, che in quel momento stava per dichiarare guerra, dovette interrompersi a metà della frase, e non se ne fece nulla. Inoltre aveva trasformato i cannoni in cannoli, siciliani naturalmente, e chi stava combattendo si ritrovò tutto coperto di ricotta e canditi. Andò avanti così per parecchi giorni, con le scarpe che diventavano carpe e nuotavano via, i mattoni che diventavano gattoni e le case si mettevano a miagolare, il pane che si trasformava in un cane e morsicava chi lo voleva mangiare. Quanta confusione! Troppa confusione, e gli uomini non ne potevano più.
Mandarono quindi una delegazione dal mago Linguaggio, a chiedere che rimettesse a posto le parole, e con loro il mondo. «E va bene» – disse Linguaggio – «ma solo ad una condizione: che cominciate a usare le parole con il loro giusto significato». «I diritti degli uomini devono essere di tutti gli uomini, proprio di tutti, sennò chiamateli privilegi. Uguaglianza deve significare davvero che tutti sono uguali e non che alcuni sono più uguali di altri. E per quanto riguarda la guerra…». «Per quanto riguarda la guerra» – lo interruppero gli uomini – «ci abbiamo pensato…tienitela pure: è una parola di cui vogliamo fare a meno».
Il nostro cuore, Signore,
nasconde spesso falsità e ipocrisia.
Purificalo con il tuo Spirito
e rendilo dimora della tua Parola
perché essa lo illumini
e ci renda capace di custodire
il luogo della nostra vita più vera.
Dal Vangelo secondo Matteo (23,27-32)
In quel tempo, Gesù parlò dicendo: «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che assomigliate a sepolcri imbiancati: all’esterno appaiono belli, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni marciume. Così anche voi: all’esterno apparite giusti davanti alla gente, ma dentro siete pieni di ipocrisia e di iniquità.
Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che costruite le tombe dei profeti e adornate i sepolcri dei giusti, e dite: “Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non saremmo stati loro complici nel versare il sangue dei profeti”. Così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli di chi uccise i profeti. Ebbene, voi colmate la misura dei vostri padri».
Signore Gesù, liberaci dall’ipocrisia.
È una gramigna che ramifica
e tutto invade fino alla morte.
Tu sai quanto ne siamo coinvolti,
quanto ci è difficile essere liberi.
Ma Tu donaci lo Spirito Santo:
Lui saprà fare di noi dei discepoli
capaci di coerenza e semplicità.
Lui ci metterà alla tua scuola
per servire e amare sempre,
senza nulla ricercare per noi:
niente posti d’onore, saluti,
ma solo umile donazione
fino alla croce quotidiana
abbracciata con amore.
Lì ritroveremo Te e il Padre,
la Chiesa, nostra madre,
e i tanti fratelli vissuti nell’umiltà del servizio,
senza sogni di gloria,
senza discorsi, gesti o proclami
ma solo lodando Te.
L’immagine dei sepolcri imbiancati è tanto impressionante quanto reale.
Purtroppo la disarmonia che si verifica nel momento in cui si sceglie di essere cosi, come i sepolcri imbiancati, simbolo di discordanza tra il dentro e il fuori, tra l’apparenza e l’interiorita’ è un atteggiamento pericoloso prima di tutto verso se stessi.
Come sempre Gesù ci mette in guardia da tutto ciò che innanzitutto fa male a noi stessi e poi al prossimo.
Perché essere ipocriti è un atteggiamento dettato dalle intenzioni che non sono mai buone e tolgono la serenità.
Questa sera Ti chiedo Gesù di donarmi la forza della capacità di coerenza, di equilibrio, di integrazione con me stessa e nell’immagine di Te Signore, che sei bontà, verità, stabilità e certezza.
Per vivere bene abbiamo solo che bisogno di pace e di amore; e con lo Spirito Santo vivente in noi, il cuore non può che riempirsi di ciò.
Grazie Gesù perché mi indichi la strada ogni giorno.
Il racconto degli Strada mi ha riportato in mente quello raccontato ai bambini del laboratorio domenicale: La grande fabbrica delle parole. Anche lì si sottolineavano il valore e l’importanza delle parole e dell’utilizzo che ne facciamo.
Prego perché i piccoli semi gettati con quell’esperienza trovino terreno fertile perché possano fiorire solo le parole più belle e con il loro vero significato. Senza più l’ipocrisia con cui a volte le copriamo.
Solo tu O Signore, che domandi a noi umiltà e desiderio di conversione, puoi liberare da questa situazione di divisione quotidiana!
O Signore donaci l’umiltà del cuore, che sola può cambiare noi e gli altri.
A proposito dell’ipocrisia. Una volta ho sentito dire: “l’ipocrisia è il tributo che il vizio paga alla virtù”, e lo credo profondamente vero. Quando sento uomini politici soprattutto, che si vantano di cose per le quali dovrebbero nascondersi, avvallando comportamenti anomali che la gente comune giustifica perché “fa così anche il tale”, rimpiango un po’ l’epoca in cui un velo di ipocrisia ammantava quei comportamenti. Torna il “si fa ma non si dice”. Con questo ovviamente non salvo gli ipocriti, soprattutto se penso a me stessa e a quanta ipocrisia c’è in alcuni miei atteggiamenti. Ma attenzione all’ipocrisia per la quale “de mortuis nihil nisi bonum”, il che è una bella cosa, ricordare il bene di chi ci ha preceduto, ma avere presente anche gli errori compiuti per non ripeterli.
Poi la meravigliosa favola degli Strada. Bella, se non l’avesse messa don Stefano l’avrei copiata qui io. Leggendola, verso la fine, quando tutto torna per bene, mi è venuto spontaneo pensare che la parola “guerra” andasse eliminata, anche se mi ha stupito che fossero gli uomini a chiedere di non averla più. Occorre una gran fiducia negli umani per dirlo!
“Un diritto che non è per tutti si chiama privilegio” è stato lo slogan di molte mie lezioni sulla salute. Occorre che tutti noi impariamo, nel nostro piccolo, ad essere “testimoni” più che “testimonial”
Che bella questa favola! Non la conoscevo, grazie per averla condivisa. Questa “incoerenza di senso” delle parole -piú che altro di “certe” parole- è davvero un bel problema… Anche perché poi, nascondendosi dietro a quelle, si ha la scusa per pensare “ah… Ma io non c’entro, cosa posso farci io?”. Sono un po’ i nostri sepolcri imbiancati, e ci si dimentica che per cambiare il mondo, basterebbe già che ciascuno facesse la sua piccola parte nella propria vita. Come? Cercando di essere un po’ più gentile, più accogliente. Cercando di dominare un po’ di più la rabbia, e magari anziché scattare di violenza darsi tempo per calmarsi e poi discutere, ma a parole, non con le mani… Cercando insomma di mettere un po’ di amore in più nella propria vita, nelle proprie azioni e nelle proprie relazioni. Qualcosa di fattibile da tutti, nessuno escluso, che già farebbe proprio una bella differenza.