Un’antica ricetta e l’antidoto
XXXIII domenica del Tempo Ordinario (A)
(Pr 31,10-13.19-20.30-31 / Sal 127 / 1Ts 5,1-6 / Mt 25,14-30)
Il tuo aiuto, Signore Dio nostro,
ci renda sempre lieti nel tuo servizio,
perché solo nella dedizione a Te,
fonte di ogni bene,
possiamo avere felicità piena e duratura.
Amen.
(dalla liturgia odierna)
Ecco un’antica ricetta: prendere alcuni avvenimento di cronaca d’attualità (di ogni epoca e di ogni luogo), unire ad una certa riflessione (per non dire predicazione) circa «la fine dei tempi» o «la fine del mondo» che dir si voglia, e il risultato non potrà che essere una paura terribile che paralizza, sconforta e scoraggia, ma anche un sentimento di rassegnazione, di sconfitta, di incapacità, di inadeguatezza. La ricetta è vecchia quanto il mondo.
Se la riflessione dell’uomo circa il suo destino, circa l’esito del suo percorso terreno, circa il senso del vivere – riflessione che può nascere anche davanti alla morte – può essere cosa saggia, utile o perfino necessaria, va detto che in questa riflessione dobbiamo essere accompagnati per non smarrirci.
Prima ancora che i Vangeli trovassero una loro redazione finale, circolavano nelle prime comunità cristiane alcuni messaggi, scritti e lettere tesi proprio ad accompagnare la riflessione e la vita di coloro che si domandavano se il loro tempo potesse coincidere con la fine del tempo. Basterà leggere il breve scritto di Paolo alla comunità di Tessalonica (seconda lettura di quest’oggi):
Riguardo ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; […] Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, cosicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro. Infatti siete tutti figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre. Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri. (1Ts 5,1.5-6)
È una considerazione assai popolare, quasi naturale che davanti all’avvicendarsi di avvenimenti catastrofici si possa persino pensare di essere giunti alla fine, che il tempo stia per scadere. Temi da sempre accarezzati con simpatia da una certa predicazione. Forse molte derive settarie nascono proprio da qui, da questo estraniarsi totalmente dalla realtà, fuggendo il mondo presente per paura di finire persi in un vortice… e dunque è più farci ritrovarsi tra adepti.
L’antica ricetta a dire il vero non ha nulla a che vedere con le lettere che circolavano nelle prime comunità e nemmeno con il Vangelo stesso. Gesù stesso parlando ai suoi discepoli come alle folle, aveva più volte invitato a non concentrarsi sul come e quando avverrà la fine. Per Gesù, ciò che faceva oggetto di annuncio era l’avvicinarsi del regno di Dio per non dire la presenza nascosta ma efficace di questo stesso regno, piccolo come un granello di senape, forte come il poco lievito… Una realtà presente per il bene dell’uomo.
L’imminente ritorno del Signore – che aveva promesso di tornare a prendere i suoi per portarli nel luogo stesso in cui egli stesso stava andando (Gv 14,3) – non ci legittima a rimanere passivamente in attesa che Lui passi. L’attesa del Suo ritorno, chiede a noi impegno e responsabilità, unici antidoti all’antica ricetta. È il senso della parabola che ascoltiamo oggi. Un uomo parte per un viaggio, non senza prima aver garantito e rassicurato del suo ritorno e di conseguenza aver affidato i suoi beni a qualcuno che possa custodirli.
L’annuncio del Vangelo – la Buona Notizia che può davvero essere ancora antidoto all’antica ricetta della paura – non avrebbe nulla di nuovo, di originale, di unico se ancora calcasse i toni circa il come e il quando della fine. Il Vangelo piuttosto ci apre gli occhi a considerare che il tempo passa e con esso il mondo… e dunque è qui che potrebbe nascere un desiderio di approfittare del tempo presente, di non stare a braccia conserte ma di lavorare perché quanto a ciascuno è stato affidato porti il suo frutto.
Se davvero guardare al futuro può ancora spaventare, se non ci sono prospettive per il domani come ancora sentiamo dire, il presente è una buona occasione. Si contribuirebbe alla catastrofe se stessimo con le braccia conserte, se sotterrassimo il nostro talento. Si parla un po’ ovunque di un calo della pratica religiosa (che tuttavia – diciamolo – non sempre coincide con mancanza di fede). Ma il tema vero non è contare il numero dei credenti o dei praticanti. Il tema più urgente – mi pare – è sollecitare la responsabilità verso quei beni che abbiamo ricevuto e che dobbiamo custodire. Senza dimenticare la responsabilità nei confronti degli altri perché non va dimenticato che il profitto – per chi teme Dio – è sempre un bene maggiore da condividere e che può accrescere la comunione.
È anche questa la ragione che ci fa ascoltare nella prima lettura di oggi le doti manuali e la creatività di una donna forte e saggia. C’è un filo sottile che lega questo nostro tempo a tutti i tempi e all’eternità; c’è un filo sottile che lega il mio mondo al mondo di ciascuno; c’è un filo sottile che unisce la terra al cielo; è con filo sottile di sapienza e di responsabilità che bisogna rivestire l’umano.
Dal Vangelo secondo Matteo
(25,14-30)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì.
Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone.
Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro.
Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.
Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: “Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.
Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”.
Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”».
Era sempre seduta alla finestra,
al solicello se si era d’inverno,
oppure all’ombra quand’era l’estate,
la cara vecchia a filare il cotone.
Tra le ginocchia teneva ben stretta
la sua conocchia, come un sacro crisma,
costruita con canna stagionata,
e come neve bianco era il cotone.
Di cotone aveva sempre un viluppo
accanto ai piedi, mentre era seduta,
così lei non si alzava dallo scanno
quando finiva quello incominciato.
Di lì passavo a volte e, ad osservare,
sostavo e mi mettevo a lei davanti.
– Ragazzo – lei diceva – la tua ombra
così ho negli occhi e non ci vedo più! –
Mi rannicchiavo a un canto, poveretto,
e, da bravo ragazzo rimbrottato,
mi si accendeva il viso, tutto rosso,
ma restavo… a vedere e raccontare.
Mi feci piccolino e solamente
le chiesi che facesse col cotone.
– Neanche io lo so – lei disse prontamente,
e continuò a filare, indaffarata.
Con le dita un po’ storte della destra
del fuso accarezzava lei la cocca,
e non si riposava la vecchietta:
come a vestire i figli lei filava.
E danzava e danzava quel suo fuso
trasformando in cotone la bambagia,
e s’andava allungando palmo a palmo
il filo che nasceva dalla terra.
Ecco: al fuso che piano s’ingrossava,
e appesantiva, spezzò il filo a un tratto.
Cercò, notai, lei l’aspo con lo sguardo
ed io lo vidi appeso sopra a un chiodo.
Andai a pigliarlo per non farla alzare
e poi le ressi il fuso per sbrogliarlo;
avvolta una matassa, io la legai,
poi finalmente lei s’alzò, felice.
(AA. VV., Loja J’agapi, Calimera, 1997,
Traduzione libera di Salvatore Tommasi)
Mi è tornato recentemente alla mente un affermazione di mia madre: “Io credo che inizierò a preoccuparmi per te quando tu smetterai di avere problemi, perché fino a che avrai problemi sarai costretta a muoverti”. Che poi è vero… Perché è l’ insoddisfazione vhe costringe ad attivarsi, a darsi da fare, mentre per contro è quando ci si sente “arrivati” che ci si ferma. Ma a non muoversi più (come dicevo alla mia nonna quando non aveva voglia di fare la sua fisioterapia) poi si diventa come sassi! Forse è questo un po’ il senso di questa parabola… Ricordarci di darci da fare, tenerci attivi, non tanto per non essere puniti, quanto più per non finire per autocondannarci!
Impariamo a guardare al bello, al bene che abbiamo, agli insegnamenti ricevuti dai miei nonni ad esempio sto parlando della mia esperienza personale, traboccanti di fede autentica e vera e concreta nel loro quotidiano. Ieri era la giornata della colletta alimentare: A chi, a quante persone che si professano bravissimi cristiani/cattolici è interessato questo concretissimo gesto? Forse qualcuno di loro ha partecipato a questa bellissima iniziativa volta a coloro meno abbienti di noi? Mio marito e le mie figlie (attualmente sposate e con bimbi da accudire) lo hanno fatto. IO GUARDO AL LORO ESEMPIO. GUARDO A LORO. Dico io, solo perché attualmente ho seri problemi di salute, diversamente avrei partecipato pure io. Inoltre non ha nessun senso, secondo me, parlare della fine o dell’inizio della vita. Entrambe le situazioni sono, grazie a Dio, nelle Sue mani nei Suoi pensieri, nelle Sue decisioni.
Da un proverbio: “Parere e non essere, è come filare e non tessere”, una grande verità.
E poi nel recente messaggio per la giornata mondiale delle comunicazioni sociali, Papa Francesco afferma: “l’uomo è un essere in divenire, che si scopre e si arricchisce nelle trame dei suoi giorni”.
Ecco allora la grande responsabilità di un cristiano, in ogni tempo e luogo: essere vero, perché credibile, autentico, perché unico capo, in quanto a trama ed ordito, testimone del Vangelo. Se la nostra vita è un grande dono, tanto più frutterà, quanto più sarà donata, spezzata e condivisa, con chi ci vive accanto o incontriamo “nel cammin di nostra vita”.
Usciremo a veder le stelle? Molto dipende da noi, ognuno per la propria piccola parte perché c’è un filo sottile che ci unisce proprio tutti, proprio come un figlio fa con la propria madre, nel meraviglioso e commovente libro di Alberto Pellai “Io gomitolo, tu filo”.
Di questi tempi, tra le notizie dal mondo e altre situazioni quotidiane, diventa sempre più facile pensare: ma chi me lo fa fare? Sono stanca solo di cattive notizie ora penso solo a me.
Poi però arrivano le buone riflessioni, da questo blog e dalla liturgia, l’incontro con i bambini della catechesi che ti fanno sgolare ma poi ti salutano con un abbraccio… e la settimana può ricominciare.
Donaci, Gesù, di vivere con responsabilità i doni ricevuti e che diventino comunione perché non sono mai per noi soli e solo nella condivisione portano frutto.